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Licenziamento illegittimo per foto postata su Facebook:

È illegittimo il licenziamento del dipendente che aveva postato su Facebook una propria foto mentre impugnava una pistola. È quanto stabilito dalla sentenza n. 684 del 2016 del Tribunale di Bergamo che ha accolto il ricorso del lavoratore e condannato la società a risarcirgli il danno.

E a parlarci di tale argomento (licenziamento illegittimo per foto postata su Facebook) è anche l’articolo pubblicato oggi (17.10.2016) dal Sole 24 Ore (Firma: Marisa Maraffino; Titolo: “Il posto con la pistola non è giusta causa di licenziamento”) che vi proponiamo.

Ecco l’articolo.

Non è legittimo licenziare un dipendente perché ha pubblicato una propria fotografia su Facebook mentre impugna un’arma. Lo ha stabilito il Tribunale di Bergamo (giudice Lapenta) con la sentenza 684 del 14 settembre scorso, che ha accolto il ricorso del lavoratore e condannato la società a risarcire il danno.

La pronuncia

Per il giudice la condotta, pur rappresentando un utilizzo improprio del social network, non è così grave da «svilire drasticamente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro non avendo ripercussioni di rilievo sulla prestazione lavorativa».

A nulla sono valse le considerazioni dell’azienda, che ha spiegato di avere già subito l’omicidio di una dipendente nei propri spogliatoi e che per questo voleva prevenire situazioni analoghe, oltre alla tensione tra i dipendenti.

Per il giudice pubblicare un contenuto su Facebook equivale a inviarlo agli altri dipendenti se il profilo è pubblico. In questo caso, infatti, «la pubblicazione di un post o la condivisione di un’immagine implica l’accettazione da parte del mittente del potenziale libero accesso al materiale condiviso da parte di una cerchia indeterminata di persone». La sentenza ribadisce l’orientamento – ormai condiviso anche dalla Cassazione – secondo il quale le informazioni personali pubblicate sui social network circolano online come se raccontate in una pubblica piazza.

Tuttavia, la condotta va valutata in concreto e se lo scopo della fotografia non è intimidatorio né è in grado di generare negli altri dipendenti uno stato di collettiva apprensione, non si può irrogare il licenziamento, ma solo una sanzione disciplinare meno afflittiva.

I precedenti

La sentenza si inserisce all’interno di un filone giurisprudenziale che a più riprese ha affrontato il tema dei licenziamenti causati dai social network. A legittimare l’espulsione del lavoratore, per i giudici, sono soprattutto le frasi offensive rivolte al datore di lavoro. Così non solo perde la causa ma è anche condannato a risarcire il danno morale patito dall’azienda il lavoratore che accusa il proprio datore di praticare «becere tecniche di mobbing». Per il Tribunale di Milano non c’è dubbio che la frase sia denigratoria e leda l’immagine dell’azienda. A pagare è il lavoratore, condannato a risarcire 500 euro per ogni giorno di pubblica visibilità del messaggio (Tribunale di Milano sentenza 1848 del 22 giugno 2016).

Giustificano il licenziamento anche gli accessi ripetuti ai social network durante l’orario di lavoro. Il datore può stampare la cronologia e il tipo di accesso a internet del computer dei dipendenti, senza che ciò implichi alcuna violazione della privacy. Per il Tribunale di Brescia, legittimano il licenziamento 16 accessi al giorno, di cui 12 a Facebook (su tre ore di lavoro), trattandosi di un uso improprio dello strumento di lavoro idoneo a incrinare la fiducia col datore di lavoro (Tribunale di Brescia, sentenza 782 del 13 giugno 2016).

Allo stesso modo il datore può licenziare il dipendente assente per infortunio che pubblichi sul proprio profilo le foto delle vacanze alle Maldive o in locali notturni (Tribunale di Napoli, decreto 6655 del 24 febbraio 2015).

 

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