Provvedimenti disciplinari e mobbing
La Corte Suprema, in tema di provvedimenti disciplinari e mobbing, è tornata di nuovo sull’argomento con la sentenza n. 2116 del 2016 relativamente alla vicenda di un portalettere vittima di un atteggiamento persecutorio da parte del direttore dell’ufficio postale ove prestava servizio concretizzatosi in continue richieste ingiustificate (come prestazioni di lavoro straordinario non dovuto, rifiuto di ferie, ecc.) e irrogazioni di sanzioni disciplinari.
A parlare di provvedimenti disciplinari e mobbing è anche l’articolo pubblicato oggi (3.3.2016) dal Sole 24 Ore (Firma: Angelo Zambelli; Titolo: “Niente mobbing se c’è negligenza”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
Con la sentenza 2116/2016 la Corte di cassazione è nuovamente intervenuta sul tema del mobbing, nell’ambito di un procedimento instaurato da un portalettere.
Nel caso in esame, il lavoratore – che era anche «responsabile del sindacato» – ha sostenuto di essere stato vittima di un «atteggiamento persecutorio» sul posto di lavoro, atteso che sarebbe stato insultato più volte dal direttore dell’ufficio postale e da questi sottoposto a continue richieste ingiustificate (nello specifico prestazioni di lavoro straordinario non dovuto e rifiuto di ferie), nonché soggetto a plurimi procedimenti disciplinari per l’abnorme quantitativo corrispondenza in giacenza.
Il tribunale di Bergamo ha accolto parzialmente la domanda del dipendente, ritenendo sussistente un danno biologico e morale connesso a una condotta del datore di lavoro, in relazione al quale è tuttavia stato accertato un concorso del lavoratore nel causare il danno stesso nella misura del 50 per cento. La Corte d’appello di Brescia, di contro, ha accertato l’illegittimità del comportamento del lavoratore nel suo complesso, rigettando così la sua domanda.
La Cassazione ha ripercorso la motivazione della Corte d’appello che, in modo del tutto logico e coerente, ha accertato, da un lato, come tutte le sanzioni disciplinari irrogate al lavoratore (tranne una) fossero state poi confermate in sede giudiziaria e, dall’altro lato, come le prestazioni di lavoro straordinario fossero del tutto legittime e l’ingente quantitativo di corrispondenza giacente non giustificato.
Non solo. La Corte d’appello – precisa la Cassazione – ha anche accertato come fosse proprio il dipendente a essere «poco collaborativo, negligente e restio a seguire direttive e ordini dei superiori, avvelenando il clima dell’ufficio», con la conseguenza che i procedimenti disciplinari instaurati e le relative sanzioni non potevano essere considerati come discriminatori né motivati da una sorta di «guerra psicologica» nei confronti del dipendente.
Parimenti, le frasi pronunciate dal direttore non erano rivelatrici di alcuna volontà persecutoria, anche considerando che il datore di lavoro aveva dato ben cinque anni di tempo al dipendente per «ravvedersi», irrogando durante tale periodo solo sanzioni conservative nonostante il lavoratore fosse recidivo.
La sentenza della Corte di cassazione si segnala, oltre che per la correttezza delle conclusioni, anche perché – pur senza enunciare alcun principio di diritto in materia di mobbing – implicitamente conferma il proprio indirizzo giurisprudenziale, ribadito anche recentemente, secondo cui il mobbing costituisce «un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo» (si veda Cassazione 5 novembre 2015, numero 22635).