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Trasferimento del lavoratore contro la sua volontà:

Cosa succede se a seguito del trasferimento del lavoratore contro la sua volontà, questi non si presenta sul posto di nuova assegnazione? Semplice, viene licenziato. Ma tale provvedimento espulsivo deve essere impugnato dal lavoratore nei termini di legge, perché in caso contrario il mancato rispetto dei termini di impugnazione (ex L.n. 183/2010) preclude l’esame della legittimità da parte del Magistrato del licenziamento stesso.

È il principio di diritto espresso dalla Sezione Lavoro con la Sentenza n. 16757 del 2015 ed è il tema trattato da un articolo pubblicato oggi (14.8.2015) dal Sole 24 Ore (Firma: Aldo Bottini; Titolo: “Trasferimento, ricorso puntuale”) che vi proponiamo.

Ecco l’articolo.

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Un deciso richiamo alla rigorosa osservanza dei termini di impugnazione previsti dalla legge 183/2010 (cosiddetto “collegato lavoro”), il cui mancato rispetto preclude l’esame della legittimità del provvedimento in questione. Questo il senso della sentenza della Cassazione 16757/2015.

Una lavoratrice viene trasferita. Impugna con una lettera il trasferimento, ma a tale impugnazione stragiudiziale non fa seguire nel termine previsto dalla legge il deposito del ricorso al Tribunale del lavoro. Nel frattempo viene licenziata per non aver ottemperato al trasferimento, cioè per non essersi presentata nel nuovo posto di lavoro. Assenza ingiustificata, afferma il datore di lavoro, quindi licenziamento per giusta causa. La lavoratrice impugna (stavolta nel rispetto dei termini) il licenziamento, del quale chiede l’annullamento. Lo ottiene in primo grado, ma la decisione viene ribaltata in sede di reclamo. La Corte d’appello afferma che la mancata (autonoma) impugnazione nei termini del trasferimento preclude al giudice ogni valutazione sulla sua legittimità.

Ne consegue la legittimità anche del successivo licenziamento, fondato sulla mancata ottemperanza ad un provvedimento ormai definitivo e non più censurabile dal giudice. Altrimenti, osserva il giudice del secondo grado di merito, sarebbe vanificato il termine autonomamente previsto per l’impugnativa del trasferimento.

La Cassazione ha condiviso la posizione della Corte d’appello, respingendo il ricorso della lavoratrice. Il ragionamento della Cassazione è semplice e lineare. La legge 183 del 2010 ha esteso la necessità dell’impugnazione a pena di decadenza, prevista in precedenza per il solo licenziamento, a tutta una serie di atti del datore di lavoro, tra cui il trasferimento, per il quale il termine decadenziale decorre dalla comunicazione di trasferimento. Non solo. Come per il licenziamento, per tutti gli atti a questo equiparati sotto il profilo dell’impugnazione (tra cui il trasferimento), è stato previsto un doppio termine di decadenza: un primo termine stragiudiziale (60 giorni) ed un secondo successivo termine per agire in giudizio (270 giorni). La ratio della norma, ricorda la Cassazione, è quella di «impedire il dannoso protrarsi di situazioni di incertezza relative alla sussistenza del rapporto lavorativo, con tutte le ricadute negative relative a tale incertezza». Questa esigenza fa sì che il trasferimento debba essere autonomamente impugnato nei termini anche nel caso in cui ad esso segue un licenziamento ad esso collegato, in quanto intimato per la mancata ottemperanza al trasferimento medesimo.

In altri termini, il successivo licenziamento non rimette in termini il lavoratore che non abbia autonomamente impugnato il trasferimento. E, ciò che è ancora più importante, impedisce al giudice di ritenere la illegittimità del trasferimento per eventualmente “giustificare” il rifiuto del lavoratore di ottemperarvi. Quindi, in sede di impugnazione del licenziamento, le eventuali ragioni del lavoratore fondate sull’illegittimità del trasferimento non impugnato autonomamente nei termini non possono essere prese in considerazione. Con la conseguenza, a questo punto pressoché inevitabile, del rigetto anche dell’impugnazione del licenziamento.

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