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 La Riforma del lavoro ha apportato delle novità circa l’applicazione del contratto a progetto ai rapporti di lavoro e conseguentemente il suo utilizzo è stato limitato esclusivamente allo svolgimento di prestazioni caratterizzate dal raggiungimento di uno specifico risultato prestabilito ma soprattutto non coincidente con l’oggetto sociale della ditta datrice di lavoro – committente.

A tal fine il Ministero del Lavoro, con circolare n. 7/2013, ha indicato chiaramente i casi nei quali è possibile, per il datore di lavoro, far ricorso ai contratti di collaborazione coordinate e continuative a progetto (co.co.pro.) con particolare riguardo a due settori e cioè il primo sul lavoro svolto nell’ambito delle organizzazioni non governative (o.n.g., onlus) e di organizzazioni con finalità socio-assistenziali e sanitarie; il secondo nell’ambito delle attività svolte nel settore commerciale da quelle particolari figure professionali definite “promoters”.

Già in precedenza il Ministero era intervenuto sui co.co.pro. con un’altra circolare (la n. 29/2012) per specificare che in nessun caso il progetto gestito dal collaboratore poteva essere identificato con l’oggetto sociale della ditta datrice di lavoro, ma doveva presentare specificità, autonomie e caratteristiche proprie.

Come è noto le o.n.g., le onlus e i vari tipi di organizzazioni socio-assistenziali sanitarie operano per conseguire scopi umanitari e sociali. (come ad esempio il miglioramento dell’ambiente, il rispetto dei diritti umani, l’incremento del benessere per le fasce di popolazione meno abbiente, ecc.).

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In particolare la finalità sociale di tali organizzazioni è caratterizzata da un particolare oggetto sociale il cui raggiungimento è demandato a personale del settore che agisce attraverso forme di collaborazioen gratuita come il volontariato e altresì mediante tipi di contratto di lavoro comuni aventi natura autonoma o subordinata. In alcuni casi tali organizzazioni possono anche utilizzare, per la realizzazione di determinati progetti, i co.co.pro. così come disciplinati dagli artt. 61 e segg. del D.Lgs. n. 276/2003.

A questo punto, come sopra si diceva, è intervenuta la circolare n. 7/2013 del Ministero del Lavoro che consente appunto anche alle organizzazioni di cui sopra di utilizzare tale forma contrattuale.

Tuttavia il co.co.pro. affinchè sia legittimamente stipulato tra le parti deve presentare i seguenti elementi:

  • assoluta determinatezza dell’oggetto dell’attività inteso anche come parte integrante del più generale obiettivo perseguito dall’organizzazione;

  • circoscritta individuazione dell’arco temporale per l’espletamento dell’attività progettuale in funzione dello specifico risultato finale;

  • apprezzabili margini di autonomia anche di tipo operativo da parte del collaboratore, obiettivamente riconoscibili nelle modalità di svolgimento della prestazione stessa ossia per lo svolgimento di compiti non meramente esecutivi;

  • possibilità di obiettiva verifica circa il raggiungimento dei risultati attesi“.

A tal fine l’attività del collaboratore a progetto nell’ambito socio-assistenziale non può rispondere a puntuali direttive o specifiche indicazioni operative da parte del committente (organizzazione) che rendano vano ogni margine di autonomia tecnica e metodologica nella scelta delel prestazioni “in funzione delle esigenze degli utenti beneficiari e delle finalità dell’intervento“. Inoltre, relativamente alle modalità concrete di svolgimento della prestazione “è possibile rinvenire, infatti, margini di autonomia laddove i collaboratori concordino di volta in volta con il destinatario finale della prestazione gli aspetti operativi afferenti alla tipologia di intervento, gli orari di assistenza nonché le concrete modalità di erogazione del servizio. In definitiva, la natura autonoma del contratto oggetto di accertamento può essere riconosciuta a condizione che il collaboratore determini unilateralmente e discrezionalmente, senza necessità di preventiva autorizzazione e successiva giustificazione, la quantità di prestazione socio/assistenziale da eseguire e la collocazione temporale della stessa“.

La stessa circolare n. 7/2013, come si è detto, è intervenuta altresì sulla attività relativa al lavoro svolto dal “promoter” stabilendo quanto segue.

Il lavoro del promoter si svolge normalmente presso fiere, centri commerciali, convegni, ecc., e consiste sia nell’organizzazione di un evento e/o sponsorizzazione di un determinato prodotto, mediante la consegna del materiale promozionale o attraverso la pubblicizzazione di specifiche qualità ed offerte in ordine al prodotto stesso.

La figura del promoter, pertanto, va ad identificarsi non solo con colui o colei che si limita a promuovere un prodotto, ma anche con chi lo vende nell’ambito di strutture commerciali. A tal fine si evidenzia che tali attività tendenzialmente involgono l’espletamento di compiti per lo più di carattere operativo in attuazione di indicazioni organizzative e logistiche impartite dall’azienda committente, senza la possibilità di rinvenire significativi margini di autodeterminazione da parte del lavoratore, la cui attività, peraltro, non presenta profilli di particolare complessità.

Ciò premesso, si ritiene che le figure descritte finiscano con lo svolgere attività con caratteristiche pressochéanaloghe a quelle dei commessi e/o addetti alle vendite che, come il Ministerà ha già avuto modo di chiarire con la circolare n. 29/2012, difficilmente risultano inquadrabili nell’ambito di un genuino rapporto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto, pur risultando astrattamente riconducibili ad altri rapporti di natura autonoma.

Sul punto, prosegue ancora la circolare n. 7/2013, “è possibile richiamare la L. n. 173/2005, recante la “disciplina della vendita diretta a domicilio e tutela del consumatore dalle forme di vendita piramidali”, in cui si prevede che l’attività in questione, con o senza vincolo di subordinazione, è soggetta all’obbligo del possesso del tesserino di riconoscimento di cui al D.Lgs. n. 114/1998, e che la natura della prestazione svolta senza vincolo di subordinazione deve ritenersi di carattere occasionale sino al conseguimento di un reddito annuo, derivante da tale attività, non superiore ad euro 5.000“.

Ed ancora, si legge che “In linea con le argomentazioni sopra sostenute, ove non trovi applicazione la disciplina di cui alla Legge menzionata, il personale ispettivo dovrà esaminare la fattispecie concreta posta in essere ed eventualmente ricondurre nell’alveo della subordinazione le eventuali collaborazioni a progetto, previa puntuale verifica dell’assenza dei requisiti richiesti dall’art. 61, D.Lgs. n. 276/2003, o della sussistenza di quelli di cui all’art. 2094 c.c. Nell’ambito delle attività in esame, peraltro, occorre segnalare che rientra spesso anche l’allestimento di postazioni per la vendita dei prodotti, realizzato da personale “fornito” dall’azienda produttrice mediante diverse tipologie contrattuali. In tal caso vanno verificate, in primo luogo, la tipologia del rapporto a base della prestazione di servizi (sia esso un appalto o un a prestazione accessoria alla vendita), e, in secondo luogo, la corrispondenza del tipo contrattuale alle modalità di effettiva prestazione lavorativa posta in essere. Ad ogni modo, si rappresenta che tale indicazione opera esclusivamente sotto il profilo della metodologia accertativa, al fine di orientare e uniformare l’attività ispettiva, non volendo dunque costituire alcun indice presuntivo di carattere generale in ordine ai criteri di distinzione tra attività di natura autonoma e subordinata“.

Giova ricordare che il prestatore di lavoro subordinato è colui che si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore (art. 2094 c.c.). Mentre viene definito prestatore di lavoro autonomo colui che si obbliga a compere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente (art. 2222 c.c.).

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