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Inseminazione artificiale e licenziamento discriminatorio:

Secondo la Cassazione è nullo il licenziamento della lavoratrice che manifesta l’intenzione di ricorrere alla inseminazione artificiale e quindi assentarsi per un periodo di tempo futuro per sottoporsi alle relative pratiche, e pertanto va annullato in quanto discriminatorio (sentenza n. 6575 del 2016). La lavoratrice licenziata per questo motivo ha quindi diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e anche al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni che avrebbe percepito nel periodo compreso tra il licenziamento illegittimo e l’effettiva ripresa del servizio.

In sostanza la datrice di lavoro (pure donna! Perdonate l’esternazione…) aveva licenziato la lavoratrice, poiché aveva manifestato l’intenzione di ricorrere alla inseminazione artificiale.

Ma veniamo ai fatti oggetto della causa all’esame della Suprema Corte.

Con ricorso del 15.3.2007 (omissis) agiva nei confronti dell’avvocato (omissis) davanti al Tribunale di Roma, quale Giudice del Lavoro, chiedendo tra le altre cose di dichiarare la nullità / illegittimità del licenziamento intimato in data 27.9.2005 perché determinato da motivo illecito e/o discriminatorio, con condanna della datrice di lavoro alla reintegra nelle mansioni ed al pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegra – anche a titolo di risarcimento danno – sulla base dell’ultima retribuzione dovuta. Il Tribunale aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento, ritenendo l’atto adottato per ragioni disciplinari in violazione del procedimenti di cui all’art. 7 Statuto dei Lavoratori e condannava l’avvocato (omissis) alla riassunzione della lavoratrice ed, in mancanza, al risarcimento del danno, nella misura di sei mensilità dell’ultima retribuzione.

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Proponeva appello la lavoratrice e la Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava la nullità del licenziamento in quanto discriminatorio rispetto al proposito manifestato dalla lavoratrice di sottoporsi all’estero a pratiche di inseminazione artificiale e ordinava la reintegrazione della ricorrente nelle mansioni con condanna della datrice di lavoro al pagamento delle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento alla reintegra.

Avverso la sentenza di appello proponeva ricorso per cassazione la datrice di lavoro.

Ad avviso della Cassazione, giustamente la Corte d’Appello adita aveva dichiarato nullo e discriminatorio per ragioni di genere il recesso datoriale poiché “la datrice di lavoro ha adottato un atto la cui ragione esclusiva e determinante risiede nella intenzione manifestata dalla dipendente di assentarsi ancora dal lavoro per sottoporsi all’ inseminazione artificiale, così compromettendo il regolare funzionamento dello studio professionale. Rilevano dunque le future assenze dal lavoro indotte dalla inseminazione, quindi è sanzionata una condotta legittima che è esclusiva della donna”. Pertanto, ad avviso dei giudici d’appello, la datrice di lavoro aveva inteso in qualche modo “sanzionare” con il licenziamento la decisione più che legittima della dipendente di sottoporsi ad un programma di inseminazione artificiale: decisione che costituiva violazione dei principi di diritto codificati in materia di discriminazione, ma anche violazione della giurisprudenza comunitaria. Ed al riguardo la Corte d’Appello richiamava la pronunzia della Corte di Giustizia (sentenza 26.2.2008, in causa C 506/06) che ha ritenuto “discriminatorio il licenziamento comunicato alla lavoratrice prima dell’impianto nell’utero degli ovuli fecondati in vitro, ove sia dimostrato che detto licenziamento è stato essenzialmente determinato dalla peculiare condizione in cui ella versava o dalla sua futura maternità”. Ed ancora: “Certamente i lavoratori di entrambi i sessi possono avere un impedimento di carattere temporaneo ad effettuare il loro lavoro a causa dei trattamenti medici che debbano seguire. Tuttavia, gli interventi di cui trattasi nella causa principale, vale a dire un prelievo follicolare e il trasferimento nell’utero della donna degli ovuli prelevati immediatamente dopo la loro fecondazione, riguardano direttamente soltanto le donne. Ne consegue che il licenziamento di una lavoratrice a causa essenzialmente del fatto che essa si sottoponga a questa fase importante di un trattamento di inseminazione artificiale costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso”.

La Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla datrice di lavoro.

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