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Demansionamento per evitare il licenziamento:

La sentenza n. 23698/2015 della Cassazione è intervenuta sulla questione del demansionamento per evitare il licenziamento stabilendo che l’assegnazione a mansioni inferiori va sempre prospettata dal datore di lavoro al lavoratore.

È questo l’argomento trattato da un articolo pubblicato oggi (24.11.2015) dal Sole 24 Ore (Firma: Rossana Cassarà e Alessando Limatola; Firma: “Sì al demansionamento se salva il posto”) che vi proponiamo.

Ecco l’articolo.

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Laddove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa praticabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo è onere del datore di lavoro, nel rispetto dei principi generali di buona fede e correttezza, prospettare al lavoratore la possibilità di essere assegnato a mansioni inferiori, senza che sia quest’ultimo a dover preventivamente manifestare la propria disponibilità.

È questo il principio ribadito dalla Cassazione con la sentenza 23698/15, la quale, pur nel solco di un orientamento giurisprudenziale già segnato, offre interessanti spunti interpretativi della disciplina delle mansioni, divenuta di grande attualità a seguito della riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile ad opera del Jobs Act.

Nel caso in esame, la Corte d’appello, confermando la decisione del giudice del lavoro, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore la cui posizione era stata soppressa a seguito di una riorganizzazione aziendale. Ciò sul fondamento che l’impresa non aveva offerto al dipendente il reimpiego nella mansione inferiore di responsabile ufficio acquisti, già vacante prima del licenziamento.

Ricorreva in Cassazione il datore di lavoro rilevando come la Corte territoriale avesse erroneamente attribuito all’azienda l’onere di provare l’assenza di posizioni libere con mansioni inferiori, quando invece spettava al lavoratore interessato ad una simile posizione farne richiesta. Inoltre, non avrebbe dovuto la Corte d’appello entrare così in profondità nel merito delle scelte aziendali precedenti al licenziamento e imporre all’imprenditore di modificare l’assetto organizzativo aziendale, così violando l’articolo 41 della Costituzione.

Nel decidere la controversia, la Cassazione precisa in primo luogo che la disposizione dell’articolo 2103 del codice civile va interpretata in un’ottica di bilanciamento tra il diritto del datore ad un’organizzazione efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto. La stessa norma va inoltre letta con la stessa ratio che ha ispirato interventi legislativi resi in categorie similari, nonché coerente con la recente riformulazione dell’articolo 2103 del codice civile ad opera del Dlgs 20 febbraio 2015 e con la possibilità di assegnazione di mansioni inferiori in caso di modifica di assetti organizzativi aziendali che coinvolgano anche il lavoratore.

In sintesi, i giudici della Cassazione hanno voluto affermare i seguenti principi: a) se il fine perseguito è quello della conservazione del posto e non c’è altra alternativa al licenziamento, l’adibizione a mansioni inferiori con mantenimento del medesimo livello retributivo non costituisce violazione del datore di lavoro (Cass. 8596/07; Cass 11395/14); b) in tale ipotesi, il datore deve offrire questa possibilità ove esistente senza che sia necessaria la preventiva richiesta del lavoratore, né un patto di demansionamento.

Nonostante tali presupposti nel caso di specie la Cassazione – ribaltando le sentenze dei due precedenti gradi di giudizio – ha ritenuto legittimo il licenziamento de quo, ponendo al centro l’articolo 41 della Costituzione e ritenendo che il rispetto dei doveri di correttezza e buona fede non può spingersi fino ad imporre al datore una scelta organizzativa tale da incidere sulla sua sfera di libera iniziativa economica.

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