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Il patteggiamento ha efficacia di giudicato e influisce sull’esito del processo del lavoro nei confronti del dipendente assenteista, e conferma quindi la legittimità del licenziamento disciplinare. È quanto deciso dalla Corte Suprema di Cassazione con la sentenza n. 20560 del 19 luglio 2021.

I fatti processuali riguardano il licenziamento disciplinare irrogato ad un pubblico dipendente che, unitamente ad altri colleghi, attestava falsamente la propria presenza in ufficio grazie all’abusivo (e reciproco) utilizzo del badge.

Di seguito il testo integrale della sentenza n. 20560/2021 (licenziamento disciplinare).

REPUBBLICA ITALIANA

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19245/2019 proposto da:

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1847/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 17/01/2019 R.G.N. 931/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/01/2021 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONÀ Stefano, che ha concluso per rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. la Corte d’Appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale di Lodi, ha rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare irrogato dal Ministero della Giustizia nei confronti di (OMISSIS), già cancelliere con mansioni di capo ufficio presso il Giudice di Pace di Lodi.

La Corte riteneva incontestabile che il (OMISSIS), unitamente ad altri due colleghi, avesse falsamente attestato la propria presenza in ufficio mediante l’abusivo e reciproco utilizzo dei badges in loro dotazione.

La Corte d’Appello, a parte il rilievo che il (OMISSIS) non era riuscito a circostanziare l’asserito impegno presso il Tribunale in tre delle giornate contestate, osservava come il sistema illecito operasse anche solo se egli era in ritardo o se l’assenza riguardasse assenze intermedie per ritardati rientri nella pausa pranzo.

Riteneva quindi che la condotta posta in essere, in ragione del ruolo rivestito e dell’artificio ideato fosse oggettivamente di gravità tale da incidere negativamente sul vincolo di fiducia.

2. Il (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, poi illustrati da memoria.

Il Ministero della Giustizia ha opposto difese con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo addotto dal ricorrente afferma la violazione (articolo 360 c.p.c., n. 3) dell’articolo 115 c.p.c., nonché dell’articolo 2697 c.c., e della L. n. 604 del 1966, articolo 5, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe omesso di porre a fondamento della propria decisione le circostanze dedotte nel ricorso introduttivo e non contestate dal Ministero, costituitosi tardivamente, riguardanti il fatto che il sistema del badge non consentiva la rilevazione delle ore lavorate presso altri uffici, ribadiva che vi erano molte ore in più del dovuto, in parte non registrate.

Egli aggiunge poi che la Corte d’Appello non avrebbe potuto fondare l’accertamento della sussistenza dell’addebito sulla sentenza ex articolo 444 c.p.p., sia perché successiva al licenziamento, sia perché inidonea a fornire elementi di valutazione sulla sussistenza del fatto e sulla sua gravità.

1.2 Pertanto, non essendovi stata dimostrazione dei fatti contestati, la Corte d’Appello, nel riconoscere la fondatezza dell’addebito, aveva violato le regole generali (articolo 2697 c.c.) e specifiche (L. n. 604 del 1966, articolo 5) sull’onere della prova.

  1. Il motivo va disatteso in tutte le sue articolazioni.

2.1 La Corte d’Appello ha fatto menzione della questione in ordine alle ore di lavoro svolte dal (OMISSIS) presso il Tribunale ed all’impossibilità di documentarle per mezzo del badge, sottolineando come il ricorrente non avesse saputo precisare quali precisi impegni lo avessero portato presso il Tribunale in tre date specifiche, ritenendo tuttavia che, al di là di ciò, fosse accertata l’utilizzazione delle false attestazioni per i ritardi o per le assenze intermedie.

Ciò posto, per la valorizzazione di circostanze che si assumono non contestate, non è sufficiente il riepilogo narrativo contenuto nel corpo del primo motivo di ricorso, essendo necessaria la trascrizione – mancante – degli specifici passaggi del ricorso di primo grado in cui quei fatti sarebbero stati addotti.

La formulazione del motivo si pone dunque in contrasto con i presupposti di specificità di cui all’articolo 366 c.p.c., comma 1, (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 3, 4 e 6 della stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione siano idonee, riportando anche la trascrizione esplicita dei passaggi degli atti e documenti su cui le censure si fondano, a manifestare pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente in tali atti e documenti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469).

2.2 Non è poi fondato l’assunto secondo cui la Corte d’Appello non avrebbe potuto trarre dalla sentenza penale di c.d. patteggiamento elementi di valutazione. A parte il fatto che tale sentenza appare più richiamata che posta a reale fondamento delle argomentazioni svolte, questa Corte ha comunque già ritenuto che “nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle autorità pubbliche, e quindi anche in quelli contro i dipendenti della P.A., a norma degli articoli 445 e 653 c.p.p., come modificati dalla L. n. 97 del 2001, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso; ne consegue che quando la contrattazione collettiva fa riferimento, per la graduazione delle sanzioni disciplinari a carico del pubblico dipendente, alla sussistenza, per i medesimi fatti, di sentenza di condanna penale, quest’ultima, in ragione del disposto del citato articolo 653, deve presumersi riguardare anche il caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 c.p.p.” (Cass. 31 luglio 2019, n. 20721).

Il riferimento dell’articolo 653 c.p.c., al “giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità” non vale poi a delimitare la valenza della norma alla sola fase amministrativa della valutazione disciplinare, essendo evidente che l’ordinamento, per non contraddire se stesso, non potrebbe riconoscere l’efficacia di giudicato alla sentenza penale di patteggiamento solo allorquando la P.A. valuti l’addebito e non nella sede giudiziale in cui ulteriormente si discuta dello stesso.

In tale logica neppure può ravvisarsi una qualche preclusione alla valorizzazione del giudicato in sede giudiziale, per la circostanza che la sentenza penale sia successiva all’irrogazione della sanzione disciplinare e quindi non abbia fatto parte del materiale istruttorio esaminato in sede amministrativa.

Infatti, una tale limitazione della portata dell’articolo 653 c.p.p., è priva di senso, non essendovi ragione alcuna perché l’efficacia di giudicato possa subire variazioni a seconda del momento in cui la sentenza sia stata pronunciata e ciò tanto più a fronte di un principio generale, già acquisito alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “il principio dell’immutabilità della contestazione attiene ai fatti posti a fondamento del licenziamento disciplinare, non anche ai mezzi di prova dei quali il datore di lavoro si avvalga per dimostrare giudizialmente la fondatezza dell’addebito, sicché non gli è impedito di chiedere in giudizio l’acquisizione di prove non emerse nel procedimento disciplinare, né gli è precluso, per dimostrare la sussistenza del fatto e la commissione da parte dell’incolpato, ferma la necessità di evitare conflitti fra gli esiti dei procedimenti, in forza della disciplina di cui al Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 ter, e articoli 653 e 654 c.p.p., di avvalersi del giudicato penale di condanna che sopravvenga nel corso del giudizio civile di impugnazione della sanzione” (Cass. 28 settembre 2016, n. 19183).

2.3 Non è infine vero che la Corte d’Appello abbia operato addossando gli oneri probatori in capo al lavoratore.

Essa ha invece ritenuto la fondatezza sulla base degli atti complessivamente disponibili e puntualmente indicati (pag. 3, penultimo periodo) e poi esaminati (pag. 4) nella sentenza, valorizzandosi in particolare il verbale di audizione del (OMISSIS) in sede disciplinare.

3. Il secondo motivo è formulato come omessa motivazione su fatti decisivi e omesso esame della proporzionalità del licenziamento.

La questione sulla proporzionalità è affrontata altresì nel terzo motivo, con il quale si assume la violazione dell’articolo 2106 c.c., e della L. n. 300 del 1970, articolo 7, (articolo 360 c.p.c., n. 3), ma anche l’omesso esame di fatti decisivi (articolo 360 c.p.c., n. 5); i due motivi, riguardando il medesimo tema, possono essere esaminati congiuntamente.

Il secondo motivo contiene la mera proposizione di una diversa valutazione rispetto alla proporzionalità della sanzione, la cui valutazione è propria del giudice del merito e come tale certamente estranea all’ambito del giudizio di legittimità (Cass. 4 agosto 2017, n. 19547; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148; Cass. 9 agosto 2007, n. 17477), se non espressa con modalità logicamente inaccettabili.

La Corte territoriale ha al contrario plausibilmente apprezzato tale aspetto, avendo argomentato sia sulla gravità dell’infrazione in ragione della creazione di un artificio utile a eludere i controlli della P.A. sul rispetto degli orari, sia sul disposto dell’articolo 55 quater, nel testo vigente ratione temporis, contenente il richiamo, quale causa di licenziamento, alle alterazioni dei mezzi di rilevazione della presenza in servizio mediante atipiche “modalità fraudolente”, senza tralasciare il richiamo al ruolo (di capo ufficio) rivestito dal ricorrente, così ricostruendo con completezza i fatti a base della rottura del vincolo fiduciario. Non diversamente, il richiamo del terzo motivo a “tutti gli aspetti concreti afferenti la natura e l’utilità del singolo rapporto, la posizione… il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni, il nocumento eventualmente arrecato… i motivi e l’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo” è rilievo del tutto apodittico, privo di elementi concreti e tale da trascurare la motivazione viceversa spesa e sopra richiamata sulla veste del (OMISSIS) nell’ufficio e sull’elemento intenzionale nella creazione di un artificio fraudolento.

Anche il successivo richiamo del ricorrente alle motivazioni rese dal Tribunale in prime cure si traduce ulteriormente nella riproposizione di una diversa lettura di merito dei dati istruttori, sulla cui inammissibilità già si è detto.

Così come la denuncia di omessa valutazione di un fatto decisivo incentrata sulla mancata considerazione di “tutti gli elementi offerti dal ricorrente” risulta di una tale genericità da non permettere di riconoscere una rituale introduzione del motivo di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 5.

  1. Al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del grado.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.

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