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La Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 708 del 2020, ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di licenziamento disciplinare ed ha specificato che la giusta causa e il giustificato motivo di licenziamento sono nozioni di natura legale e di conseguenza il giudice del merito, nel valutarne la portata, non è vincolato alle statuizioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari. Come è noto, infatti, la contrattazione collettiva rappresenta il parametro di riferimento per la corretta interpretazione delle clausole generali di cui all’art. 2119 c.c. ed anche l’art. 30, comma 3, della L.n. 183/2010 precisa che il giudice, nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento da parte del datore di lavoro, deve tener conto delle tipizzazioni della giusta causa e del giustificato motivo previsti dalla contrattazione collettiva.

Quel che di fatto ha ribadito la Corte Suprema con la sentenza 708/2020 è in sostanza il principio secondo il quale il magistrato – pur in presenza di una elencazione delle fattispecie nel CCNL – deve in ogni caso compiere una valutazione autonoma dei fatti che gli consenta di stabilire se, ad esempio, l’inadempimento del lavoratore sia tale da giustificare l’irrogazione di un licenziamento disciplinare.

Si legge infatti in sentenza:

Avuto riguardo alle previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, questa Corte, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo nozioni legali, ha più volte espresso il generale principio che tali previsioni non vincolano il giudice di merito (ex plurimis, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011). Anche se “la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’articolo 2119 c.c.” (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 del 2018), considerato altresì che la L. n. 183 del 2010, articolo 30, comma 3, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro” (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella L. n. 183 del 2010, articolo 30, v. anche Cass. n. 25201 del 2016).

L’accertamento concreto che deve compiere il giudice di merito

In particolare anche quando si riscontri la corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente come ipotesi che giustifica il licenziamento disciplinare, stante la fonte legale della nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, deve essere effettuato in ogni caso un accertamento in concreto – da parte del giudice del merito – della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale, tenendo conto della gravità del comportamento del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” dettata dall’articolo 1455 c.c. (v., tra molte, Cass. n. 8826 del 2017; Cass. n. 14063 del 23/05/2019, Cass. n. 13865 del 22/05/2019, Cass. n. 18195 del 05/07/2019).

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Le ipotesi meramente esemplificative della contrattazione collettiva

Dalla natura legale della nozione deriva simmetricamente che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 5372 del 2004; v. pure Cass. n. 27004 del 2018).

All’opposto la contrattazione collettiva vincola in senso favorevole al dipendente.

Infatti, ove le previsioni del contratto collettivo siano più favorevoli al lavoratore – nel senso che la condotta addebitata quale causa del licenziamento sia contemplata come infrazione sanzionabile con misura conservativa – il giudice non può ritenere legittimo il recesso, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (v. tra molte, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 19053 del 2005; Cass. n. 5103 del 1998; Cass. n. 1173 del 1996, la quale ultima eccettua il caso in cui si accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva).

Tali rapporti tra tipizzazioni della disciplina collettiva e fatti posti a base del licenziamento disciplinare incidono anche sui confini del sindacato di legittimità ove si controverta di giusta causa o di giustificato motivo di recesso (su cui, in generale, v. Cass. nn. 17166 e 18715 del 2016 e, in continuità, Cass. n. 4125 del 2017 e Cass. n. 1379 del 2019).

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