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La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 21506 del 2019, ha stabilito che è legittimo il licenziamento dell’ artista non all’altezza del suo ruolo, grazie alla clausola di protesta, ampiamente utilizzata nel mondo dello spettacolo.

Estratto dell’articolo di Patrizia Maciocchi per il Sole 24 Ore (per il testo integrale clicca qui).

Via libera alla risoluzione del contratto stipulato dal teatro lirico con la cantante non all’altezza del suo ruolo. A rendere possibile il rifiuto della prestazione, a discrezione della direzione artistica, è la possibilità di avvalersi della cosiddetta clausola di protesta, ampiamente usata nel mondo dello spettacolo. La Corte di cassazione, con la sentenza 21506, respinge il ricorso di una soprano che chiedeva oltre 17 mila euro di risarcimento per il recesso unilaterale dell’ente lirico, prima della scadenza del contratto. Un passo indietro che, ad avviso dell’artista, il teatro non poteva fare essendo il rapporto di lavoro basato su un contratto d’opera regolato dal Codice civile (articolo 2222) e non su un contratto atipico basato sull’intuitus personae.

La decisione della Cassazione

La Cassazione ricorda invece la natura atipica del contratto che lega gli artisti, la cui prestazione non può essere del tutto equiparata a quella di un libero professionista, che svolge il suo lavoro in piena indipendenza. Secondo la dottrina il rapporto ha gli elementi della parasubordinazione perché il lavoratore, nello specifico il cantante lirico, gestisce autonomamente la sua attività artistica ma svolge, sotto il coordinamento del committente e con la sua organizzazione, tutte le fasi che esigono collaborazione tra i soggetti coinvolti nello spettacolo. Quanto alla clausola di protesta la Cassazione afferma che ha assunto l’identità di un uso ricorrente, tanto da essere prevista nel contratto collettivo nazionale degli artisti. Una “postilla” che consente al committente di liberarsi dalla scrittura se giudica l’artista non idoneo al ruolo per il quale è stato scritturato. La Suprema corte sottolinea che la dottrina ha scritto molto sulla clausola di protesta dandone diverse interpretazioni: da una sorta di patto di prova, a negozio giuridico unilaterale a destinatario determinato, da una giusta causa di recesso ad istituto sui generis proprio del lavoro artistico. Ma al di là delle interpretazioni, per la Cassazione può essere usata quando non si giudica l’artista ingaggiato sufficientemente bravo. E, nello specifico, la cantante era stata considerata vocalmente non idonea. La clausola esclude l’applicazione della disciplina generale (articolo 2237 del Codice civile) relativa ai diritti economici del prestatore d’opera. La Cassazione respinge il ricorso, ma compensa le spese in considerazione della particolarità della questione trattata.

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