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La Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza 21965 del 2018, ha reso il seguente principio di diritto: “Illegittimo il licenziamento per condotte diffamatorie nei confronti del dipendente eletto nella Rsa che in una chat su facebook riservata agli iscritti al sindacato esprima giudizi pesanti sul datore di lavoro, il contenuto deve essere considerato come corrispondenza privata” (dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore del 11 settembre 2018).

Vediamo insieme i fatti di causa.

Con sentenza n. 73 pubblicata il 18.5.2016, la Corte d’Appello di Lecce, accogliendo il reclamo proposto dal sig. …. e in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al predetto con lettera del 15.12.2014 e condannato la … s.p.a., quale cessionaria di ramo d’azienda della … s.p.a., alla reintegra e al pagamento di una indennità pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nonché al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.

La Corte territoriale ha premesso come il licenziamento fosse stato intimato al sig. …, guardia particolare giurata alle dipendenze di … s.p.a. dal 2007, per le offese rivolte dal medesimo all’amministratore delegato, sig. …, nel corso di una conversazione sulla chat di Facebook che sarebbe intervenuta il 18.9.2014 e la cui schermata, stampata, sarebbe pervenuta all’azienda il 13.11.2014 per mano di un anonimo.

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Ai fini del recesso era stata considerata dalla società anche la recidiva in ragione della sanzione conservativa adottata nei confronti del dipendente il 21.10.2014, per assenza ingiustificata dal 23 al 24 settembre 2014.

Secondo la Corte di merito, non poteva tenersi conto della recidiva contestata in quanto il licenziamento era stato intimato per giusta causa e considerato, tra l’altro, che il lavoratore aveva proposto ricorso in giudizio al fine di far accertare l’illegittimità del provvedimento disciplinare del 21.10.2014.

Riguardo alla condotta diffamatoria contestata, il giudice d’appello ha ritenuto la stampa della schermata della chat di Facebook, in quanto raccolta senza garanzia di rispondenza all’originale e di riferibilità ad un determinato periodo temporale e in assenza di conferma testimoniale, inidonea a dimostrare il contenuto del colloquio e la data dello stesso.

In ragione dell’inutilizzabilità del documento anonimo e del disconoscimento dello stesso da parte del sig. …, mancava la prova del fatto addebitato.

Comunque, le espressioni contestate, ove anche attribuibili al sig. …, dovessero essere valutate tenendo conto del ruolo del predetto quale Rsa per il sindacato, del fatto che il messaggio fosse stato pubblicato sul “gruppo Facebook” del sindacato … e all’interno della conversazione intervenuta tra i partecipanti alla chat, il sindacalista …. , la dipendente … e l’ …., in relazione all’invito che, a dire della .., l’amministratore … le aveva rivolto perché cambiasse sindacato in quanto la … voleva la morte dell’azienda.

Ha sottolineato la Corte d’appello, il riferimento fatto nella conversazione ai metodi “schiavisti” dell’azienda, e le espressioni usate riguardo all’amministratore, peraltro incomplete per l’uso di puntini sospensivi (“faccia di m…”, e “cogli…”), dovessero valutarsi come “coloriture, ormai entrate nel linguaggio comune, tese a rafforzare il dissenso dai metodi del …, dovendo altrimenti “concludersi che la libertà di critica e, ancora prima, di opinione, possa essere esercitata solo manifestando idee favorevoli o inoffensive o indifferenti.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la società datrice di lavoro che veniva rigettato dalla Corte Suprema con il principio di diritto sopra enunciato.

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