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La Corte di Giustizia dell’UE pubblicata ieri (causa C103_16) ha stabilito che nell’ambito di un licenziamento collettivo, una legge che consente di licenziare una lavoratrice in stato di gravidanza non è contraria al diritto comunitario anche se ciascuno Stato membro resta libero di includere forme di tutele più garantiste per le lavoratrici gestanti.

Vediamo nel dettaglio la decisione della Corte di Giustizia dell’UE e le possibili conseguenze sul nostro ordinamento con gli articoli pubblicati oggi (23.2.2018) dal Sole 24 Ore (firma: G. Falasca; Titolo: “Per UE lecito licenziare le lavoratrici in gravidanza”) e dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore (firma: G. Falasca; Titolo: “Corte UE: i licenziamenti collettivi si applicano anche alle lavoratrici gestanti”) che di seguito riportiamo.

Per la Ue lecito licenziare le lavoratrici in gravidanza

In Italia azione possibile solo se chiude l’intera azienda

Una legge nazionale che consente di licenziare la lavoratrice in stato di gravidanza nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo non è contraria al diritto comunitario; ciascuno Stato membro resta, tuttavia, libero di prevedere forme di tutele più forti per le dipendenti madri e gestanti. Con queste motivazioni la sentenza della Corte di giustizia pubblicata ieri (Causa C 103/2016), ha rimosso ogni dubbio sulla legittimità della normativa vigente in Spagna.
La controversia è nata a seguito del licenziamento di una lavoratrice in stato di gravidanza nell’ambito di una procedura di riduzione collettiva del personale avviata da una banca. Tale recesso è stato intimato nel rispetto delle norme spagnole, che vietano il licenziamento delle lavoratrici gestanti salvo il caso in cui il recesso sia dovuto a motivi non riguardanti la gravidanza o l’esercizio del diritto ai permessi e all’aspettativa conseguenti alla maternità.

Il giudice locale ha sollevato la questione del possibile contrasto con le norme della direttiva 92/85, con la quale sono definite misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle donne gestanti, puerpere o in periodo di allattamento.

La Corte di giustizia ritiene infondato questo dubbio, rilevando che il divieto di licenziamento posto dalla direttiva mira a prevenire gli effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, che può generare un rischio di licenziamento per motivi connessi al loro stato. Per prevenire questo rischio, sono previste pesanti sanzioni per tutti i provvedimenti che abbiano come presupposto lo stato personale della lavoratrice. Al contrario, osserva la Corte, la direttiva non vieta il licenziamento durante il periodo dall’inizio della gravidanza fino al termine del congedo di maternità, qualora l’atto sia fondato su motivi non connessi allo stato di gravidanza della lavoratrice.

Tali motivi possono essere, precisa la Corte, economici, tecnici o relativi all’organizzazione o alla produzione dell’impresa, e devono essere indicati per iscritto dal datore di lavoro, il quale deve comunicare alla lavoratrice gestante i criteri oggettivi adottati per designare il personale da licenziare.
La Corte prende posizione anche sul regime sanzionatorio applicabile alla fattispecie, precisando che la tutela risarcitoria in favore delle donne gestanti puerpere e in allattamento deve essere accompagnata dall’espresso divieto di recesso per motivi fondati sulla condizione personale della lavoratrice.
La sentenza – nella parte relativa alla possibilità di licenziare le lavoratrici madri nell’ambito di una procedura di riduzione del personale – potrebbe (in linea teorica) legittimare un ripensamento sulla materia, ma non avrà alcun impatto immediato sulle norme vigenti in Italia, che impediscono, anche in caso di procedura collettiva, il licenziamento della lavoratrice madre, a meno che non ci sia una chiusura dell’intera azienda.

Corte Ue: i licenziamenti collettivi si applicano anche alle lavoratrici gestanti

Le lavoratrici gestanti possono essere licenziate a seguito di un licenziamento collettivo. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia Ue con sentenza 22 febbraio 2018 nella causa C-103/201.

 La Corte ha precisato che «in un caso del genere, il datore di lavoro deve fornire alla lavoratrice gestante licenziata i motivi che giustificano il licenziamento nonché i criteri oggettivi adottati per designare i lavoratori da licenziare».

Il caso – Il caso è relativo alla decisione del 2013 del gruppo spagnolo Bankia che avviò una fase di consultazione con i rappresentanti dei lavoratori per procedere a un licenziamento collettivo. L’8 febbraio 2013 il comitato di negoziazione è giunto a un accordo che stabiliva i criteri da applicare nella scelta dei lavoratori da licenziare e quelli che stabiliscono una priorità al mantenimento dei posti di lavoro nell’impresa. Il 13 novembre 2013 Bankia ha notificato a una lavoratrice, all’epoca incinta, una lettera di licenziamento in forza dell’accordo del comitato di negoziazione, nella quale si indicava, in particolare, che nel caso specifico della provincia in cui essa lavorava era necessario ridurre in misura notevole l’organico e che dalla procedura di valutazione realizzata dall’impresa nel corso della fase di consultazione risultava che la dipendente aveva ottenuto uno dei punteggi più bassi della provincia.

La lavoratrici ha contestato il licenziamento davanti al Tribunale del lavoro, che si è pronunciato a favore della società. Di qui l’appello alla Corte superiore di giustizia della Catalogna, che alla fine ha chiesto Corte di giustizia Ue di interpretare il divieto di licenziare le lavoratrici gestanti, previsto nella direttiva 92/85 sulla sicurezza e la salute delle lavoratrici gestanti, nel contesto di una procedura di licenziamento collettivo ai sensi della direttiva 98/59 sui licenziamenti collettivi. Tale direttiva vieta il licenziamento delle lavoratrici nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità, tranne nei casi eccezionali non connessi al loro stato ammessi dalle legislazioni e/o prassi nazionali.

La posizione della Cgue – Con la sua sentenza la Corte dichiara che la direttiva 92/85 «non osta a una normativa nazionale che consente il licenziamento di una lavoratrice gestante a causa di un licenziamento collettivo». La Corte ricorda, anzitutto, che una decisione di licenziamento adottata per motivi essenzialmente legati allo stato di gravidanza dell’interessata è incompatibile con il divieto di licenziamento previsto in tale direttiva. Per contro, una decisione di licenziamento presa durante il periodo che va dall’inizio della gravidanza fino al termine del congedo di maternità per motivi non connessi allo stato di gravidanza della lavoratrice «non è contraria alla direttiva 92/85 se il datore di lavoro fornisce per iscritto giustificati motivi di licenziamento e il licenziamento dell’interessata è consentito dalle legislazioni e/o prassi dello Stato membro di cui trattasi». Ne consegue che «i motivi non inerenti alla persona del lavoratore, che possono essere invocati nell’ambito dei licenziamenti collettivi ai sensi della direttiva 98/59, rientrano nei casi eccezionali non connessi allo stato delle lavoratrici ai sensi della direttiva 92/8».La Corte dichiara, inoltre, che la direttiva 92/85 «non osta a una normativa nazionale che consenta al datore di lavoro di licenziare una lavoratrice gestante nell’ambito di un licenziamento collettivo senza fornirle motivi diversi da quelli che giustificano tale licenziamento collettivo, a condizione che siano indicati i criteri oggettivi adottati per designare i lavoratori da licenziare».

A tal fine, il combinato disposto delle due direttive richiede unicamente che il datore di lavoro esponga per iscritto i motivi non inerenti alla persona della lavoratrice gestante per i quali esso effettua il licenziamento collettivo (in particolare, motivi economici, tecnici o relativi all’organizzazione o alla produzione dell’impresa) e indichi alla lavoratrice interessata i criteri oggettivi presi in considerazione per designare i lavoratori da licenziare.

La duplice protezione – In risposta a un’altra questione sollevata dal Tribunal Superior de Justicia de Cataluna, la Corte dichiara anche che la direttiva 92/85 «osta a una normativa nazionale che non vieti, in linea di principio, il licenziamento di una lavoratrice gestante, puerpera o in periodo di allattamento, a titolo preventivo, e che preveda unicamente la nullità di tale licenziamento se questo è illegittimo, a titolo di risarcimento». La Corte sottolinea che la direttiva 92/85 opera un’espressa distinzione tra la tutela contro il licenziamento, a titolo preventivo, e la tutela contro le conseguenze del licenziamento, a titolo di risarcimento. Gli Stati membri «sono quindi tenuti ad instaurare tale duplice protezione». La tutela preventiva è particolarmente importante nel quadro della direttiva 92/85, in considerazione dei rischi che un eventuale licenziamento fa gravare sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, compreso il rischio particolarmente grave di spingere la lavoratrice gestante ad interrompere volontariamente la gravidanza. Il divieto di licenziamento che figura nella direttiva risponde a tale preoccupazione. Pertanto, la Corte considera che «la tutela a titolo di risarcimento, anche nell’ipotesi in cui sfociasse nella reintegrazione della lavoratrice licenziata e nel versamento delle retribuzioni non percepite a causa del licenziamento, non può sostituire la tutela a titolo preventivo». Di conseguenza, gli Stati membri non possono limitarsi a prevedere unicamente, a titolo di risarcimento, la nullità di tale licenziamento se questo è ingiustificato.

Infine, la Corte indica che la direttiva 92/85 «non osta a una normativa nazionale che, nell’ambito di un licenziamento collettivo, non preveda né una priorità al mantenimento del posto di lavoro né una priorità di riqualificazione applicabili prima di tale licenziamento, per le lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento». Infatti, la direttiva 92/85 non impone agli Stati membri di prevedere priorità del genere. Tuttavia, poiché la direttiva contiene unicamente prescrizioni minime, gli Stati membri «hanno la facoltà di garantire una protezione più elevata alle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento».

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