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Repêchage, nei licenziamenti collettivi non esiste alcun obbligo di ricollocazione: 

Secondo la Corte d’Appello di Milano (sentenza 131 del 2017) non esiste alcun obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro in caso di licenziamenti collettivi e, “l’eventuale impegno assunto in sede di accordo sindacale, per favorire la ricollocazione dei lavoratori coinvolti nella procedura, ha “natura meramente contrattuale”: la sua eventuale violazione, dunque, non costituirà una infrazione dei criteri di scelta o della procedura”.

Ma vediamo di comprendere meglio la questione con lo speciale pubblicato oggi (11.12.2017) dal Sole 24 Ore (Firma: A. Mora e V. Pomares; Titolo: “Repêchage più ampio con mansioni flessibili”) che di seguito riportiamo.

Nel giudizio per l’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve dimostrare l’effettività delle ragioni alla base del recesso e l’assenza di posizioni alternative in cui riassorbire il lavoratore che si appresta a licenziare. Questo per evitare la dichiarazione dell’illegittimità del recesso. È il cosiddetto obbligo di repêchage, non presente nel diritto positivo ma creato dalla giurisprudenza, che ne ha definito caratteristiche e limiti sotto diversi profili. Una recente sentenza della Corte d’appello di Milano (la 131/2017, si veda Il Sole 24 Ore dell’8 novembre) ha stabilito che nei licenziamenti collettivi non esiste per il datore di lavoro alcun obbligo di repêchage, e l’eventuale impegno assunto in sede di accordo sindacale, per favorire la ricollocazione dei lavoratori coinvolti dalla procedura, ha «natura meramente contrattuale»: la sua eventuale violazione, dunque, non costituirà una infrazione dei criteri di scelta o della procedura.
Ma quali sono i confini dell’obbligo di repêchage?
Vediamo la linea tracciata dai giudici sul perimetro di applicazione, sulle eventuali nuove mansioni da assegnare al lavoratore e sull’obbligo formativo.
Sull’ambito nel quale verificare la possibilità di repêchage, l’orientamento maggioritario afferma che l’obbligo va circoscritto all’organico del datore di lavoro, non potendosi estendere a società collegate dello stesso gruppo (Corte di Appello di Milano, sezione lavoro, sentenza del 24 ottobre 2013). Solo nel caso di un gruppo societario qualificabile come unico centro d’imputazione del rapporto di lavoro, la giurisprudenza appare orientata nel senso di estendere l’obbligo di repêchage a tutte le imprese del gruppo (Cassazione, sezione lavoro, sentenza 13606 del 30 maggio 2017; Tribunale di Pescara, sezione lavoro, sentenza 694 dell’11 luglio 2016).
Il secondo e più discusso profilo esaminato dalla giurisprudenza è quello delle mansioni per le quali va verificata la possibilità di riassorbire il dipendente.
Originariamente, i giudici limitavano questo controllo alle sole mansioni equivalenti, coerentemente con la vecchia formulazione dell’articolo 2103 del Codice civile, secondo cui il datore di lavoro doveva adibire il prestatore alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
Tuttavia, nonostante questa previsione normativa, in un’ottica di tutela del lavoratore sempre crescente, la giurisprudenza aveva iniziato a ritenere che il datore di lavoro dovesse verificare la possibilità di impiegare il lavoratore non solo in mansioni equivalenti ma anche inferiori (Tribunale di Trapani, sezione lavoro, sentenza del 23 novembre 2007). Questa estensione dell’obbligo però era mitigata dalla giurisprudenza che subordinava l’offerta di mansioni inferiori al fatto che rientrassero nel bagaglio professionale del lavoratore e fossero compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore (Cassazione, sezione lavoro, sentenza 4509 dell’8 marzo 2016).
Con la modifica dell’articolo 2103 del Codice civile tramite il Dlgs 81/2015 (il Codice dei contratti varato in attuazione del Jobs act) , in vigore dal 25 giugno 2015, è stata superata la nozione di “equivalenza” delle mansioni: il nuovo articolo 2103 prevede che il lavoratore possa essere adibito ad altre mansioni purché riconducibili allo stesso livello e categoria legale d’inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Questa riscrittura ha indotto parte della giurisprudenza a ridelineare i contorni del repêchage, rendendolo più rigoroso. Secondo il Tribunale di Milano, ad esempio, l’indagine del datore sull’esistenza di posizioni alternative alle quali assegnare il lavoratore deve estendersi a tutte le mansioni disponibili all’interno dello stesso livello di inquadramento del lavoratore licenziato senza che il lavoratore possa lamentare che le nuove attività abbiano contenuto peggiorativo o non rientrino nel suo bagaglio di competenze professionali (Tribunale di Milano, sezione lavoro, sentenza 3370 del 16 dicembre 2016).
Questa visione estensiva della portata del repêchage è mitigata da sentenze successive, secondo cui l’assolvimento di tale obbligo non comporta, a carico del datore di lavoro, l’onere di formare il dipendente. Il Tribunale di Roma ha precisato che «dopo l’entrata in vigore del Dlgs 81/2015, che ha introdotto il nuovo testo dell’art. 2103 del Codice civile, l’aggravamento dell’onere gravante sul datore di lavoro in ordine all’impossibilità di repêchage non può ritenersi assoluto: il datore di lavoro sarà tenuto ad allegare e dimostrare la mancata disponibilità di posizioni corrispondenti allo stesso livello e categoria di inquadramento del lavoratore, purché si tratti però di mansioni libere e che non necessitino di idonea formazione, in quanto l’obbligo formativo è stato configurato nel nuovo testo dell’articolo 2103 del Codice civile come conseguenza della scelta unilaterale del datore di lavoro» (Tribunale di Roma, sezione lavoro, sentenza del 24 luglio 2017).

LE CINQE MOSSE PER NON SBAGLIARE

  1. STOP A NUOVI INGRESSI 

Niente assunzioni per posizioni equivalenti
È bene che l’azienda non effettui nessuna nuova assunzione per posizioni equivalenti o inferiori (compatibili) almeno nei sei-otto mesi successivi al licenziamento del lavoratore. Questo periodo di tempo è quello generalmente ritenuto congruo dalla giurisprudenza per non ritenere violato l’obbligo di repêchage (si veda la sentenza del Tribunale di Bari, sezione lavoro, n. 11249 del 31 ottobre 2013).

  1. POSIZIONI VACANTI IN AZIENDA 

Da escludere vacancies compatibili
Prima di procedere al licenziamento di un lavoratore, l’azienda dovrebbe verificare che non ci siano vacancies, cioè posizioni di lavoro vacanti. Può accadere di non essersi resi conto che, al momento del licenziamento, vi fossero degli annunci interni per posizioni vacanti e che, addirittura, il lavoratore interessato, venutone a conoscenza, avesse presentato la propria candidatura.

  1. MANSIONI PLURIME 

Riscontro sulle mansioni svolte in passato
È opportuno verificare che il dipendente coinvolto nel licenziamento non abbia svolto altre mansioni in passato. La giurisprudenza ha affermato che se il dipendente, durante il rapporto, è stato adibito a mansioni inferiori, seppur in via residuale, la verifica del repêchage va effettuata anche in relazione a queste mansioni “dequalificanti” (Cassazione, sezione lavoro, sentenza 13379 del 26 maggio 2017).

  1. I DOCUMENTI A SOSTEGNO DEL RECESSO 

Ragioni (e tempi) da provare con precisione
L’azienda deve avere i documenti che attestano le ragioni del licenziamento. Se il motivo, ad esempio, è la soppressione della posizione di lavoro per l’esternalizzazione del servizio cui è addetto il dipendente, bisogna verificare che il contratto di outsourcing decorra dalla data di soppressione della posizione e che l’esternalizzazione incida sulla posizione del lavoratore.

  1. MONITORARE IL PERIODO PRECEDENTE 

Controllo mirato sulle assunzioni recenti
Per ridurre il rischio di contestazioni in merito alla violazione dell’obbligo di repêchage, è opportuno

che l’azienda intenzionata a procedere a un licenziamento verifichi di non avere effettuato nuove assunzioni, per posizioni assegnabili al dipendente che si appresta a licenziare, anche nel periodo immediatamente precedente il recesso.

LE SANZIONI

La violazione comporta l’indennità per il lavoratore

La riscrittura dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con la legge 92/2012 ha reso più controverso il regime sanzionatorio applicabile in caso di violazione dell’obbligo di repêchage nelle aziende con più di 15 dipendenti.
Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo giudicato illegittimo, la legge prevede due diverse tutele: reale e indennitaria, a seconda del tipo di vizio del licenziamento.
Il lavoratore può essere garantito dalla tutela reale in caso di licenziamento illegittimo per manifesta insussistenza del fatto (settimo e quarto comma dell’articolo 18), mentre nelle altre ipotesi in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, applica la tutela indennitaria da 12 a 24 mensilità (settimo e quinto comma dell’articolo 18).
Si è dunque dibattuto sulla possibilità di configurare il repêchage quale elemento costitutivo delle ragioni del licenziamento.
La giurisprudenza appare consolidata nell’affermare che l’obbligo di repêchage è una semplice conseguenza secondaria delle ragioni alla base del licenziamento e che la sua violazione non comporti l’insussistenza del motivo oggettivo e la tutela reintegratoria, ma solo quella indennitaria prevista dal comma 5 dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori come modificato dalla legge Fornero (legge 92/2012).
I tribunali ricordano che nel caso di illegittimità del licenziamento per violazione dell’obbligo di repêchage, il lavoratore «in base alle note modifiche della legge Fornero, non ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro ma solo al risarcimento danni.(…) Come si è visto, il fatto del quale valutare la sussistenza è soltanto il venir meno della posizione lavorativa, mentre l’obbligo di verificare se esiste o meno una possibilità di ricollocazione rappresenta una mera conseguenza del fatto, alla quale, tuttavia, il datore di lavoro è tenuto, al fine di non incorrere nella condanna sebbene, appunto, di natura esclusivamente economica» (Tribunale di Roma, sentenza 5005 del 26 maggio 2017 e sentenza 7296 del 1° agosto 2016; Tribunale di Torino, sentenza del 5 aprile 2016; Tribunale di Milano, sentenza del 6 maggio 2016).
Contratto a tutele crescenti
Non dovrebbero esserci dubbi per i rapporti di lavoro regolati dal Dlgs 23/2015, ossia per i lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti dal 7 marzo 2015, per i quali dovrebbe essere abbastanza certa, nel caso di violazione dell’obbligo di repêchage, l’applicazione dell’articolo 3, comma 1 del decreto: questa norma prevede, per le aziende con più di 15 dipendenti, l’estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a 24 mensilità (si veda ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano del 21 febbraio 2017). Tuttavia, lo stesso Tribunale di Milano, seppur per una fattispecie particolare, ha espresso orientamenti diversi anche nel caso di licenziamenti illegittimi di lavoratori assunti in base al Dlgs 23/2015.

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