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L’INL, con Nota n. 1959 del 30.9.2022, ha precisato che la prescrizione dei crediti previdenziali è di cinque anni dalla data di cessazione del rapporto di lavoro privato, anche alla luce dell’orientamento espresso dalla sentenza n. 26246/2022 della Corte Suprema di Cassazione.

Di seguito il testo della nota n. 1959/2022.

Con nota prot. n. 595 del 23 gennaio 2020 questa Direzione si esprimeva – prendendo le mosse dal dato normativo e dagli orientamenti giurisprudenziali – in ordine alla decorrenza del termine quinquennale di prescrizione dei crediti da lavoro, al fine di garantire al personale ispettivo una corretta adozione del provvedimento di diffida accertativa.

A tale riguardo, la Corte di Cassazione nel corso degli anni, in deroga al principio di cui all’art. 2935 c.c. – in base al quale la prescrizione di un diritto inizia a decorrere dal momento in cui lo stesso può  essere esercitato – aveva espresso l’orientamento secondo cui, per i crediti di lavoro, la decorrenza non operasse necessariamente in costanza di rapporto di lavoro, ritenendo che il lavoratore si potesse trovare in una condizione di “timore”, tale da indurlo a rinunciare ai propri diritti, almeno fino alla cessazione del rapporto stesso.

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Tale condizione di sudditanza psicologica richiedeva tuttavia un esame in concreto caso per caso, da valutare a cura dell’Autorità giudiziaria adita dal lavoratore per far valere le proprie pretese (cfr. Cass. sent. n. 12553/2014; Corte di appello di Firenze sent. n. 146/2016).

Ne derivava che, avendo la diffida accertativa ad oggetto crediti certi, liquidi ed esigibili, come tali non fondati su elementi suscettibili di interpretazione, il personale ispettivo avrebbe dovuto considerare a tal fine solo i crediti da lavoro il cui termine quinquennale di prescrizione, decorrente dal primo giorno utile per far valere il diritto di credito anche se in costanza di rapporto di lavoro, non fosse ancora maturato, tenendo conto altresì degli eventuali atti interruttivi intercorsi.

Sul tema, una recente pronuncia della Cassazione, contenuta nella sent. n. 26246 del 6 settembre 2022, suggerisce un nuovo orientamento interpretativo.

Con tale sentenza la Corte di Cassazione, ripercorrendo l’evoluzione normativa degli ultimi anni (v. L. n. 92/2012 e D.Lgs. n. 23/2015), ha ritenuto di superare il precedente orientamento giurisprudenziale secondo cui, per poter individuare il dies a quo della decorrenza del termine di prescrizione, fosse necessaria ed imprescindibile una valutazione, caso per caso, volta ad accertare tanto la sussistenza di una effettiva tutela reale a favore del lavoratore, quanto di un concreto timore del licenziamento strettamente connesso alla stabilità del rapporto di lavoro.

Tale orientamento, secondo la Suprema Corte, è da considerarsi ormai inadeguato, sia perché fonte di incertezza del sistema (affidando ex post all’Autorità giudiziaria, in costanza di giudizio, il compito di ravvisare la stabilità del rapporto), sia in quanto incapace di assorbire, nello spirito di una interpretazione evolutiva del diritto, il cambiamento operato dalle riforme sul sistema della L. n. 300/1970.

Le novità introdotte dalla L. n. 92/2012 e dal D.Lgs. n. 23/2015 hanno comportato, per le ipotesi di licenziamento illegittimo, il passaggio da un’automatica applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria, ad un’applicazione selettiva delle tutele e delle sanzioni applicabili. La tutela reintegratoria, per effetto degli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23/2015, ha acquisito ormai un carattere recessivo e residuale tale da determinare, inevitabilmente, un timore del dipendente nei confronti del datore di lavoro per la sorte del rapporto ove egli intenda far valere un proprio credito nel corso dello stesso.

La Corte, a tal ragione, stabilisce pertanto che “il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92/2012 e del D.Lgs. n. 23/2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

Fa eccezione a tale principio di diritto il pubblico impiego, nel senso di non estensibilità della sopraccitata pronuncia a tali fattispecie di rapporti, per avere questi una particolare disciplina normativa che ne assicura la stabilità e la garanzia di rimedi giurisdizionali avverso la loro – eventuale ed illegittima – risoluzione, così da escludere che il “timor” del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti.

Dunque, nei rapporti di pubblico impiego, il termine di prescrizione quinquennale per i crediti di lavoro inizierà a decorrere in costanza di rapporto dal momento in cui il diritto stesso può esser fatto valere.

Alla luce del principio di diritto enucleato dalla Corte di Cassazione, deve dunque ritenersi in parte

superata la nota prot. n. 595 del 23 gennaio 2020 e pertanto, in virtù di quanto sopra, il personale ispettivo dovrà considerare oggetto di diffida accertativa i crediti (certi, liquidi ed esigibili) di cui il lavoratore dipendente è titolare tenuto conto che il dies a quo del termine di prescrizione quinquennale inizierà a decorrere solo dalla cessazione del rapporto di lavoro.

(Fonte: INL)

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