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La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 6547 del 2019, ha ribadito il proprio orientamento relativamente ai termini di impugnazione del licenziamento in caso di attivazione della procedura facoltativa di conciliazione. In particolare la Corte Suprema ha stabilito che “qualora il lavoratore, dopo aver impugnato stragiudizialmente il licenziamento, promuova il tentativo di conciliazione e questo, accettato dal datore di lavoro, si concluda con esito negativo, il termine di 180 giorni rimarrà sospeso a far data dall’attivazione della procedura ex articolo 410 del Codice di procedura civile e ricomincerà a decorrere per il tempo residuo dopo 20 giorni dal mancato accordo” (dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore).

Vediamo insieme i fatti di causa.

… e l’associazione sindacale Fisascat Cisl di Treviso, di cui era dirigente, reclamavano la sentenza del Tribunale di Treviso n. 624/15 con cui la … era stata dichiarata decaduta dalla impugnazione de licenziamento intimatole dal soc. coop. … il 10.1.14 per superamento del periodo di comporto.

Esponeva la lavoratrice di aver impugnato il licenziamento con atto stragiudiziale del 16.1.14, cui seguiva la richiesta (del 17.1.14) del tentativo di conciliazione in sede sindacale, cui seguì la convocazione delle parti per il 28.1.14 con seduta tenutasi il 6.2.14, conclusasi con mancato accordo. Di avere depositato il relativo ricorso giudiziario il 15.7.14, da ritenersi tempestivo stante la sospensione, ex art. 410 c.p.c., del termine di 180 giorni previsto dal novellato art. 6 L.n. 604/66.

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Con sentenza non definitiva depositata il 27.9.16, la Corte d’appello di Venezia accoglieva il gravame, ritenendo il termine per impugnare sospeso dalla comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione e per tutta la durata dello stesso e sino a venti giorni successivi alla sua conclusione, ex art. 410, co. 2, c.p.c., rigettando l’eccezione di decadenza accolta in primo grado e disponendo per la prosecuzione del giudizio come da separata ordinanza.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la soc. coop. … affidato ad un unico motivo. Hanno resistito con controricorso le oo.ss.

La società ricorrente contestava la sentenza di appello per aver annullato il licenziamento intimato e ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro con condanna al pagamento in favore della lavoratrice di una indennità pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge e contributi previdenziali ed assistenziali. La società in pratica non condivideva la tesi della sentenza impugnata in base alla quale la disciplina sull’ impugnazione del licenziamento di cui all’art. 6 L.n. 604/66 , come novellato dall’art. 32 L.n. 183/2010 e quindi dalla L.n. 92/10, presentava una lacuna che doveva essere colmata dalla disciplina di cui all’art. 410, comma 2, c.p.c.

La Corte Suprema al riguardo ha considerato infondato tale rilievo. Infatti, a suo avviso, l’art. 6, comma 2 novellato, L.n. 604/66 è chiaro nel prevedere, per la nota esigenza acceleratoria dei tempi per l’impugnativa dei licenziamenti, che l’ impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, mentre solo qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

La Corte ha poi chiarito che la decorrenza del termine breve di 60 giorni si ha solo nel caso di pregiudiziale rifiuto del (procedimento inerente il ) tentativo di conciliazione (o arbitrato), essendo a ciò equivalente il mancato accordo necessario al relativo espletamento, e dunque nel caso in cui la conciliazione o l’arbitrato non abbiano luogo tout court per una pregiudiziale volontà contraria di una delle parti e non invece nel caso in cui uno dei due procedimenti deflattivi si siano regolarmente svolti, sia pure con esito negativo. Ritenere che in tal caso l’originario termine decadenziale di 180 giorni si riduca al minore termine compreso dall’impugnativa stragiudiziale del licenziamento sino allo scadere di 60 giorni dal fallimento dell’esperito tentativo di conciliazione (ovvero comunque allo scadere di 60 giorni dall’esito negativo del tentativo) non risulta condivisibile, venendo in considerazione il fondamentale diritto di azione costituzionalmente tutelato ed il principio di stretta interpretazione delle norme aventi ad oggetto decadenze sostanziali.

Inoltre il secondo comma dell’art. 410 c.p.c., secondo cui “la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”, ha come conseguenza che, in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, il lavoratore vedrà il termine (di 180 giorni), per l’ormai necessario deposito del ricorso giudiziale, sospeso per la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, tempo complessivo che andrà quindi sottratto da quello di 180 giorni decorrenti dall’ impugnazione stragiudiziale del licenziamento.

Alla stregua delle suddette argomentazioni, la Corte Suprema ha ritenuto corretta la sentenza impugnata che, in caso di infruttuosità dell’espletato tentativo, ha ritenuto inapplicabile il ridetto termine di 60 giorni per il deposito del ricorso giudiziale, con conseguente decadenza dall’ impugnazione.

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