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La Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza 6937 del 2018, ha stabilito il seguente principio di diritto “la sentenza di condanna penale estranea ai fatti di lavoro non è idonea a far venire meno la fiducia del datore al temporaneo espletamento dell’incarico fino al verdetto definitivo, tuttavia se i fatti sono di estrema gravità il datore può esercitare prima il diritto di recesso. La cassazione chiarisce inoltre che non si può applicare in via estensiva o analogica l’esercizio da parte del datore della facoltà di recesso per giusta causa relativamente ad un comportamento del lavoratore che integra gli estremi del reato” (dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore del 21.3.2018).

Vediamo insieme i fatti di causa di cui alla sentenza 6937/2018.

Il sig. …., dipendente della … spa con mansioni di operaio addetto alla verniciatura, premesso di essere stato tratto in arresto dalla Polstrada in data … e sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere per circa un mese, poi collocato agli arresti domiciliari, esponeva in ricorso che, autorizzato ad allontanarsi dal luogo di detenzione domiciliare per svolgere attività lavorativa, era tornato al lavoro il 26.9.2005 e che l’azienda, presso cui il rapporto di lavoro era proseguito per oltre sei anni, aveva considerato il periodo di assenza dovuto alla limitazione della libertà personale come “permesso personale non retribuito”. Esponeva che in data 12.3.2010 era intervenuta a suo carico sentenza di condanna della Corte di Appello di Napoli per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti (138 involucri di plastica del peso complessivo di gr. 163,50 contenenti eroina) e che, dopo avergli contestato il 28.4.2011 il comportamento per cui era stato condannato, oltre alla recidiva derivante da altre due lievi violazioni infrabiennali già sanzionate, l’azienda l’aveva licenziato il 5.5.2011.

Sul rilievo che l’esercizio del potere disciplinare doveva considerarsi tardivo ed immotivato sia in relazione alla ritenuta lesione del vincolo fiduciario, sia in rapporto al principio della proporzionalità della sanzione irrogatagli, il … impugnava il licenziamento e la pronunzia di rigetto del ricorso del Tribunale di Potenza era impugnata dinanzi alla Corte di appello distrettuale, che confermava la decisione sul rilievo che la contestazione era da considerarsi tempestiva, stante l’avvenuta conoscenza del fatto, da riferire – in relazione al fatto di rilevanza disciplinare addebitato al lavoratore – non all’illecito penale, bensì alla condanna con sentenza passata in giudicato, conoscenza acquisita il 20.4.2011, seguita da contestazione disciplinare del 28.4.2011 e da comminatoria del licenziamento del 5.5.2011. La Corte territoriale osservava che l’attesa della definizione del procedimento penale era giustificata da un’esigenza di maggior favore e di garanzia per il lavoratore stesso, cui era stato consentito di difendersi compiutamente nella sede naturale prima di subire qualsiasi provvedimento disciplinare.

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Quanto alla natura del licenziamento, ne veniva rimarcato il carattere tipicamente disciplinare in linea con la previsione di specifica ipotesi contrattuale riferita a “condanna ad una pena detentiva comminata al lavoratore, con sentenza passata in giudicato, per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro che leda la figura morale del lavoratore” e veniva osservato che le nuove disposizioni introdotte dall’art. 30 della legge 183/2010 avevano ridotto gli spazi valutativi riservati al giudice proprio in ipotesi di licenziamento tipicamente disciplinare, sicché il giudice avrebbe potuto discostarsi dalla tipizzazione delle ipotesi di giusta causa e giustificato motivo di recesso individuate dalle parti contraenti solo ove il fatto, pur rientrante in una delle condotte tipiche, fosse stato ritenuto di tale ridotta gravità da non potere attentare al rapporto di fiducia e da non potere giustificare la massima sanzione espulsiva, in virtù della forza vincolante anche se non tassativa delle previsioni collettive.

Il giudice del gravame rilevava che non erano stati dedotti dal lavoratore elementi idonei a far ritenere che il fatto addebitatogli fosse privo dei tratti di gravità tali da sconsigliare un’utile prosecuzione del rapporto e, quanto alla proporzionalità della misura, riteneva che, in mancanza di allegazioni che comportassero una diversa possibilità di valutazione giudiziale della condotta già tipizzata dalle parte contrattuali, dovesse essere respinto ogni rilievo mosso sul punto dall’appellante, evidenziando poi, in ordine alla dedotta mancata affissione del codice disciplinare, che la circostanza non poteva essere invocata in relazione al comportamento contestato, per il quale era intervenuta sentenza penale di condanna che non consentiva l’accesso a misure alternative alla detenzione.

Di tale decisione domanda la cassazione il .. affidando l’impugnazione ad un unico motivo, cui non ha opposto difese la società, rimasta intimata.

La Corte Suprema, con la sentenza 6937/2018 ha rigettato il ricorso.

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