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Licenziamento per superamento periodo di comporto

Con una recentissima sentenza (Cass. Sez. Lav., n. 24899 del 25.11.2001) la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione nel confermare la facoltà dellimprenditore di intimare il licenziamento al lavoratore assente per malattia, non appena questi abbia esaurito il periodo di comporto a sua disposizione e quindi anche prima del suo rientro in servizio, ha altresì affermato un ulteriore principio.
La novità è data dalla facoltà del datore di lavoro di attendere il rientro in servizio del lavoratore assente per malattia, al fine di verificare in concreto se esistano delle residue possibilità di riutilizzo di tale dipendente, anche a seguito di intervenuto mutamento della organizzazione aziendale.

In tale ultima ipotesi tuttavia la Corte di Cassazione ha affermato che l’eventuale prolungata inerzia del datore di lavoro nel recedere dal rapporto con il dipendente che abbia superato il periodo di comporto e rientrato in servizio, può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinunciare al potere di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e quindi, generare nel dipendente un corrispondente incolpevole affidamento nel comportamento del datore.
La sentenza di cui sopra riguardava il seguente caso.
Il Tribunale di primo grado aveva annullato il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato da un datore di lavoro ad un proprio dipendente. Tale decisione veniva poi impugnata innanzi alla Corte di Appello che, nel riformarla, aveva negato la sussistenza della tardività del licenziamento poichè lo stesso era stato intimato solo il 19° giorno successivo al rientro al lavoro del dipendente assente per un lungo periodo di malattia.
Avverso tale decisione proponevano ricorso per cassazione gli eredi del lavoratore (nelle more deceduto) i quali lamentavano che la Corte di Appello aveva ritenuto tempestivo il licenziamento intimato. Tale licenziamento, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di appello, era in realtà stato comminato dalla società a distanza di ben 7 mesi dalla data in cui era spirato il termine di comporto previsto dal ccnl applicabile al rapporto, cioè di 18 mesi e 19 giorni dopo il rientro del lavoratore a seguito della malattia. Quindi, secondo gli eredi ricorrenti, tale lungo ritardo nella intimazione del licenziamento doveva essere interpretato come rinuncia ad esso per fatti concludenti.
Secondo la Suprema Corte, però, tale ragionamento non coglie nel segno.
Il concetto di tempestività del recesso, in caso superamento del periodo di comporto, è differente rispetto al concetto di tempestività di cui al licenziamento disciplinare. Infatti, argomentano i supremi Giudici, in quest’ultimo caso la tempestività con cui il datore di lavoro reagisce alla mancanza del lavoratore è determinata dal rispetto del diritto di difesa del lavoratore. Invece, nel primo caso la tempestività è volta ad evitare che il dipendente non sappia con certezza se e a quali condizioni potrà proseguire il proprio rapporto di lavoro. Tale situazione di incertezza quindi determinerebbe la impossibilità per il dipendente di esercitare tutti i diritti connessi al rapporto di lavoro per timore che il datore gli possa intimare, per ritorsione, un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La Suprema Corte dunque, in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, ha affermato il seguente principio: l’interesse del lavoratore alla certezza delle vicende contrattuali vanno contemperati con il diritto del datore di lavoro alla possibilità di valutare la convenienza o meno della rinnovata presenza del lavoratore in ambito aziendale.
Tale ragionamento avrà come debito corollario la conseguenza che il concetto di tempestività del licenziamento non può essere contenuto (esercitato) in un arco temporale fisso e predeterminato, ma sarà dato da una valutazione di congruità, caso per caso, effettuata dal giudice di merito in base all’intero contesto della situazione sottoposta al suo esame. Importante da sottolineare che in ogni caso l’inerzia del datore di lavoro fin quando il lavoratore (che ha superato il periodo di comporto) non è rientrato in servizio, di certo non dimostra la sua volontà di rinunciare alla facoltà di recesso; nè tanto meno tale inerzia è idonea di per sè a determinare nel lavoratore il c.d. incolpevole affidamento.
L’inerzia del datore di lavoro potrebbe infatti essere determinata dalla esigenza di accertare se, una volta che il lavoratore abbia ripreso il servizio, vi siano delle possibilità di un suo utilizzo concreto all’interno di una realtà aziendale che, nelle more della sua malattia, potrebbe aver subito delle diversificazioni anche consistenti.
La Suprema Corte dunque, nel caso sottoposto al suo esame, ha stabilito che il licenziamento intimato nell’arco temporale di 19 giorni dal rientro in servizio del dipendente, era risultato compatibile sia con le dimensioni aziendali che con il tempo necessario al datore di lavoro per valutare la possibilità di reimpiego del lavoratore rientrato in servizio dopo lunga malattia. Pertanto alla luce di tale ragionamento la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dagli eredi del lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto.

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