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Il lavoratore che è stato licenziato ha l’onere di impugnare il provvedimento di licenziamento, a pena di decadenza, entro il termine di 60 giorni dal ricevimento della comunicazione, con qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la sua volontà ad impugnare il licenziamento stesso. Il termine di 60 giorni decorre dalla comunicazione del licenziamento ovvero dalla comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale alla data del licenziamento (art. 6 L.n. 604/1966).

Attualmente, con l’entrata in vigore della legge 183/2010 (Collegato lavoro) la procedura di impugnativa di licenziamento ha subito delle variazioni.

L’art. 32 del Collegato Lavoro, che ha modificato l’art. 6 della L.n. 604/1966 cit., in tema di impugnativa di licenziamento stabilisce che il lavoratore deve:

  • impugnare il licenziamento entro 60 giorni dalla sua comunicazione;

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  • depositare il ricorso, entro il successivo termine di 270 giorni, presso la cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro, altrimenti l’impugnazione del licenziamento diventa inefficace.

Con il Collegato lavoro dunque il lavoratore non è più obbligato a depositare il tentativo di conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro prima di iniziare un giudizio per far valere i suoi diritti presso il Tribunale in funzione di giudice del lavoro. Ciò significa che, una volta impugnato il licenziamento entro i 60 giorni dalla comunicazione, può direttamente depositare il ricorso presso la cancelleria del Tribunale.

Tuttavia, qualora il lavoratore intenda depositare il tentativo di conciliazione presso la DPL o fare richiesta di arbitrato nei confronti del datore di lavoro e se questa sia rifiutato o non venga raggiunto un accordo, è obbligatorio in tal caso per il lavoratore depositare il ricorso al giudice del lavoro, a pena di decadenza, entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Per quanto riguarda l’impugnazione del licenziamento, il lavoratore non ha bisogno di utilizzare formule particolari nè ha bisogno di specificare i motivi, ma deve soltanto rendere noto per iscritto al datore di lavoro la sua volontà di impugnare il provvedimento espulsivo. L’impugnazione diventa efficace nel momento in cui la manifestazione di volontà giunge a conoscenza del datore di lavoro.

Fondamentale, giova riperterlo, è che l’impugnazione sia seguita nel termine di 270 giorni dal deposito del ricorso presso il Tribunale in funzione del giudice del lavoro territorialmente competente o della richiesta al datore di lavoro del tentativo di conciliazione (non più obbligatorio) o arbitrato.

Si evienzia inoltre che il licenziamento può essere impugnato quando:

  • sia privo di giusta causa o giustificato motivo (con la conseguenza che in caso di giudizio il licenziamento potrà essere annullabile);

  • manchi la forma scritta (in questo caso il licenziamento è inefficace);

  • è intimato per ragioni discriminatorie, durante la maternità, per causa di matrimonio e in generale in tutti i casi in cui non è consentito risolvere il rapporto di lavoro (in questi casi il licenziamento sarà nullo)

Se il lavoratore non impugna il licenziamento nei termini stabiliti dalla legge perde il diritto alle tutele previste dalla legge.

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