Il 10 aprile 2025 l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ha introdotto nel sistema di classificazione delle attività economiche italiane un nuovo codice ATECO, il 96.99.92 – “Servizi di incontro ed eventi simili”. Un atto formale, tecnico, ma destinato a far discutere non solo sul piano politico e sociale, bensì anche sotto il profilo giuridico, fiscale e lavoristico.

Questo nuovo codice accoglie una gamma molto ampia di attività: dalle agenzie di incontri, ai servizi di accompagnamento, fino – almeno nella formulazione – all’organizzazione di eventi con contenuti sessuali o legati al mondo dell’intrattenimento per adulti. Ed è proprio questa parte, ancora sospesa tra legalità, tolleranza e proibizionismo, a scuotere il dibattito pubblico e a interrogare giuristi, esperti di diritto del lavoro e operatori economici.

Non si tratta, è bene precisarlo, di una legalizzazione della prostituzione o di una sanatoria delle attività connesse. In Italia, la Legge Merlin del 1958 è ancora pienamente in vigore: la prostituzione in sé non è reato, ma ogni forma di intermediazione o favoreggiamento lo è. Tuttavia, sul piano fiscale, le cose non sono così nette: già da anni l’Agenzia delle Entrate pretende il pagamento delle imposte anche su redditi derivanti da attività non formalmente riconosciute, compreso il sex work autonomo.

L’introduzione del codice 96.99.92, quindi, non legalizza, ma classifica un fenomeno che esiste, è rilevante economicamente, e può – almeno in parte – essere tracciato. Per chi opera in autonomia nel settore degli incontri o dell’accompagnamento, si apre così la possibilità di registrarsi, aprire una partita IVA, accedere al sistema contributivo e dichiarare i propri redditi.

Tutto ciò avviene in un contesto dove l’economia sommersa rappresenta ancora una parte rilevante del PIL nazionale, e dove le attività legate al mondo dell’intrattenimento per adulti, pur spesso svolte alla luce del sole, vivono in una zona d’ombra normativa che lascia poco spazio ai diritti e molta incertezza giuridica.

Ma quali sono i possibili effetti economici di questa classificazione? E che impatto può avere sulla previdenza, sull’occupazione, sul fisco e sulla coerenza normativa tra leggi penali e regolamentazione economica?

Per rispondere a queste domande, proponiamo un’analisi approfondita e documentata degli effetti a lungo termine che la formalizzazione – anche parziale – di attività come le escort e le agenzie di incontro potrebbe avere sull’economia informale italiana. Un’analisi che tocca non solo l’Italia, ma anche il confronto con modelli europei consolidati, come quello tedesco, olandese e svizzero.

Impatti della formalizzazione di escort e agenzie di incontro sull’economia informale in Italia

1. Implicazioni sul PIL sommerso e recupero di valore economico

La prostituzione e le attività di escort in Italia costituiscono attualmente una parte significativa dell’economia sommersa/illegale. Secondo i dati ISTAT aggiornati al 2022, il valore dei servizi di prostituzione è stimato in circa 4 miliardi di euro di valore aggiunto, con consumi finali per 4,7 miliardi di euro (Cresce l’economia illegale e sommersa, trainano droghe e prostituzione – PMI – Ansa.it). Queste attività, pur essendo illegali o non regolamentate, sono incluse nelle stime del PIL “non osservato” per obbligo europeo di esaustività statistica. In effetti, l’ISTAT riporta che l’intera economia illegale in Italia (trainata da traffico di droga e prostituzione) ammonta a 19,8 miliardi di euro nel 2022, riportandosi ai livelli pre-pandemia. Il solo settore della prostituzione rappresenta quindi circa lo 0,2-0,3% del PIL nazionale.

Formalizzare queste attività tramite un codice ATECO (come il nuovo 96.99.92 “Servizi di incontro ed eventi simili”) potrebbe spostare tale quota di PIL dal sommerso all’economia emersa, con un recupero di valore economico tassabile. Attualmente il “giro d’affari” annuo della prostituzione in Italia è stimato in circa 4-5 miliardi di euro (Il no alle lavoratrici del sesso è per la dignità delle donne), con un numero di sex workers stimato tra 70.000 e 120.000 (di cui circa la metà stranieri e ~10% minorenni, secondo dati Codacons) e circa 3 milioni di clienti coinvolti. Se anche solo una parte significativa di questo volume fosse registrata e dichiarata, l’impatto sul PIL “emerso” sarebbe rilevante. Va notato che in termini di contabilità nazionale il PIL non aumenterebbe necessariamente (poiché quelle attività sono già stimate nel PIL), ma si ridurrebbe il peso del PIL sommerso/illegale, oggi pari a oltre il 10% del PIL , migliorando la trasparenza e la tracciabilità delle transazioni economiche.

In termini di gettito fiscale potenziale, diversi studi ipotizzano introiti consistenti. Ad esempio, una simulazione citata su L’Arena calcola che tassando i proventi delle prostitute con aliquote moderate (15-20%) lo Stato potrebbe incassare 2-4 miliardi di euro di tasse l’anno (Regolarizzare le escort? Al fisco 5 miliardi di euro | L’Arena). Si tratta di stime indicative: un rapporto parlamentare (Commissione Affari Sociali) indicava anch’esso in 5 miliardi di euro il volume d’affari annuale delle circa 70mila prostitute italiane. In ottica ottimistica, la regolarizzazione fiscale potrebbe recuperare fino a 1-1,5 miliardi di gettito (a seconda dell’aliquota) (Legalizzare o no la prostituzione? – Starting Finance), contribuendo anche indirettamente al PIL attraverso l’emersione di redditi prima nascosti. Tuttavia, alcuni analisti mettono in guardia da sopravvalutazioni: per ottenere 4 miliardi di gettito annuo con una flat tax al 15% servirebbe un volume d’affari di 26 miliardi (ben superiore alle stime di 4-5 miliardi). Realisticamente, dunque, il recupero fiscale potrebbe essere più contenuto ma comunque nell’ordine di qualche centinaio di milioni fino al miliardo di euro l’anno, cifra non trascurabile.

La formalizzazione avrebbe anche implicazioni qualitative: includere queste attività nell’alveo legale significa sottrarre risorse all’economia sommersa, riducendo fenomeni come l’evasione fiscale e il riciclaggio legati al settore. Inoltre, permetterebbe di quantificare con maggior accuratezza il contributo economico del settore dei servizi sessuali, oggi stimato in modo indiretto. Un effetto a lungo termine potrebbe essere una riduzione progressiva del peso relativo dell’economia sommersa sul totale: già negli ultimi anni si è osservata una discesa dal ~10,7% del PIL nel 2014 al ~9% intorno al 2020 , e l’emersione di questo comparto potrebbe accelerare tale tendenza. In sintesi, dal punto di vista macroeconomico far emergere il mercato del sesso trasformerebbe una quota oggi “in nero” in attività economica contabilizzata e (almeno in parte) tassata, con benefici per le casse pubbliche e per la correttezza statistica del PIL.

2. Effetti su occupazione, previdenza sociale e sistema contributivo
Effetti su occupazione, previdenza sociale e sistema contributivo (diritto-lavoro.com)

2. Effetti su occupazione, previdenza sociale e sistema contributivo

La regolarizzazione aprirebbe le porte all’ingresso di migliaia di lavoratori autonomi (partite IVA) finora operanti nell’ombra. In Italia chi si prostituisce come attività autonoma potrebbe teoricamente registrarsi con il nuovo codice Ateco 96.99.92 e aprire partita IVA, versando imposte e contributi come qualsiasi altro libero professionista. Di fatto, la possibilità di “mettersi in regola” con il fisco per escort e prostitute sarebbe una novità epocale, dato che finora “prostituirsi e pagare le tasse, anche volendo, era impossibile” legalmente.

In termini occupazionali, riconoscere il sex work come lavoro significherebbe aggiungere decine di migliaia di persone alla forza lavoro ufficiale. Oggi queste persone non compaiono nelle statistiche occupazionali (spesso risultano disoccupate o impiegate informalmente). Se, ad esempio, anche solo 50.000-70.000 lavoratrici e lavoratori del sesso registrassero una posizione fiscale, verrebbero conteggiati come occupati indipendenti, abbassando marginalmente il tasso di disoccupazione e riducendo il lavoro irregolare. Va ricordato che il lavoro irregolare in Italia rappresenta quasi 3 milioni di unità lavorative equivalenti; la regolarizzazione di questo segmento dunque contribuirebbe a ridurre il fenomeno. Si tratterebbe inoltre di un ambito a prevalenza femminile (circa l’80-90% donne secondo le stime (Prostituzione legge Merlin – Codacons Sicilia – Francesco Tanasi), andando ad aumentare la partecipazione femminile al lavoro autonomo ufficiale.

Dal punto di vista previdenziale e contributivo, i nuovi ingressi significherebbero maggiori entrate per INPS e fisco. I liberi professionisti in Italia devono versare contributi pensionistici (ad esempio alla Gestione Separata INPS o ad altre casse) spesso intorno al 25% del reddito. Anche ipotizzando redditi dichiarati relativamente modesti, l’afflusso di decine di migliaia di nuovi contribuenti garantirebbe centinaia di milioni di euro annui in contributi. Ad esempio, se 70.000 sex worker dichiarassero un reddito annuo medio di 20.000 €, la base imponibile previdenziale sarebbe 1,4 miliardi e i contributi (al 25%) circa 350 milioni di euro all’anno al sistema pensionistico. Queste persone maturerebbero inoltre diritti pensionistici e di welfare: versando contributi, potrebbero avere in futuro accesso a pensioni di vecchiaia, invalidità, maternità, etc., oggi precluse a chi opera nel sommerso. Si passerebbe quindi da una situazione in cui molte ex-prostitute in età avanzata si trovano senza tutele, a una in cui almeno chi ha lavorato legalmente potrebbe percepire una pensione. Anche la copertura sanitaria risulterebbe facilitata: sebbene in Italia il SSN copra tutti i residenti, l’iscrizione come lavoratore permetterebbe ad esempio infortuni sul lavoro assicurati (qualora venisse previsto un inquadramento INAIL) e maggiore facilità di accedere a servizi dedicati senza stigma.

Un ulteriore effetto sul sistema contributivo riguarda la trasparenza finanziaria: i guadagni dichiarati permetterebbero a queste lavoratrici di aprire conti correnti, acquistare casa o beni intestandoli a sé senza timore di indagini fiscali. Oggi, provenendo da attività non dichiarate, molti proventi della prostituzione non possono essere impiegati apertamente: in alcuni casi la Guardia di Finanza è intervenuta con sanzioni per redditi non dichiarati da prostitute, e la Corte di Cassazione ha stabilito che “chi esercita la prostituzione deve pagare le tasse” su quei proventi. Questa sentenza del 2016 conferma che, dal punto di vista tributario, i redditi da prostituzione sono comunque considerati imponibili anche in assenza di un riconoscimento formale del lavoro (una situazione paradossale in cui il fisco esige le tasse da un’attività che altre leggi non riconoscono). Formalizzare il settore chiarirebbe questa ambiguità e permetterebbe ai diretti interessati di evitare procedimenti per evasione, versando regolarmente imposte in cambio di protezioni sociali.

Certo, l’effetto occupazionale e contributivo dipenderà dall’adesione effettiva alla regolarizzazione. Molte sex worker potrebbero esitare a “mettersi in regola” per timore di stigmatizzazione, perdita di privacy o ripercussioni legali (vedi punto 3). Alcune potrebbero preferire continuare in nero pur di non comparire in elenchi ufficiali. Pertanto, i numeri teorici potrebbero essere raggiunti solo con adeguate garanzie di riservatezza e incentivi (es. aliquote agevolate iniziali, condono sul pregresso, sportelli dedicati). In Germania, dove la prostituzione è legale da anni, solo una minoranza delle operatrici risulta effettivamente registrata (circa 23 mila su stime di centinaia di migliaia, vedi punto 4) (Destatis: in Germania registrate oltre 23 mila prostitute). Ciò suggerisce che la formalizzazione fiscale da sola non basta: servono politiche di accompagnamento per portare davvero le persone nel sistema contributivo. Ad ogni modo, sul lungo termine l’ingresso anche graduale di nuove partite IVA dal settore del sex work amplierebbe la base contributiva, portando benefici sia ai lavoratori (in termini di tutele) sia allo Stato (in termini di maggior gettito e minor economia irregolare).

3. Contraddizioni giuridico-fiscali e normativa penale vigente (Legge Merlin)

📜 La Legge Merlin: cosa prevede davvero?

Nome completo:
Legge 20 febbraio 1958, n. 75Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui.

Cosa vieta:

  • La gestione delle case di tolleranza (bordelli);
  • Qualsiasi forma di sfruttamento, favoreggiamento o intermediazione nella prostituzione altrui;
  • Il reclutamento o l’induzione alla prostituzione, anche se con il consenso della persona coinvolta.

Cosa NON vieta:
La prostituzione in sé, se esercitata in modo autonomo da una persona maggiorenne e consenziente.

Sanzioni previste:
Fino a 6 anni di reclusione per chi favorisce, sfrutta o organizza l’attività altrui.
Reati aggravati se coinvolgono minori o forme di coercizione.

Contesto attuale:
La legge è ancora in vigore, ma spesso giudicata anacronistica o incoerente con la realtà economica e sociale contemporanea.
Ogni tentativo di riforma (abrogazione, registri, riapertura dei bordelli) è finora fallito o rimasto in discussione.

Uno degli ostacoli principali alla formalizzazione completa di escort e agenzie di incontro in Italia è il conflitto con la normativa penale vigente, in particolare con la Legge Merlin (L. 75/1958). La Legge Merlin, in vigore dal 1958, ha abolito le case di tolleranza e criminalizza ogni forma di sfruttamento, favoreggiamento e induzione della prostituzione. In base a essa, mentre il meretricio in sé (l’atto di prostituirsi volontariamente) non costituisce reato, sono invece reati: gestire bordelli, fare da intermediari tra prostituta e cliente, trarre profitto dall’attività altrui, reclutare o indurre alla prostituzione. Questa impostazione neo-abolizionista mira a colpire l’organizzazione del sex work, tutelando formalmente la persona che si prostituisce (considerata vittima potenziale di sfruttamento).

L’introduzione di un codice ATECO 96.99.92 che include esplicitamente “fornitura o organizzazione di servizi sessuali, organizzazione di eventi di prostituzione o gestione di locali di prostituzione” (Anche escort e prostituzione hanno il loro codice Ateco 96.99.92 ) appare in palese contrasto con la Merlin, che vieta proprio tali attività organizzative. In pratica, se qualcuno aprisse legalmente un’“agenzia di incontri” che offre escort o organizzasse eventi di prostituzione, potrebbe vedersi contestati reati di favoreggiamento o sfruttamento. Questa contraddizione è stata subito sollevata da vari esponenti politici: la senatrice Alessandra Maiorino (M5S) ha dichiarato che sarebbe “grave che il fisco prevedesse nei nuovi codici Ateco l’organizzazione di servizi sessuali” perché “ciò va a regolarizzare, dal punto di vista fiscale, attività in conflitto con le leggi esistenti”, annunciando un’interrogazione parlamentare in merito. In sostanza, come può lo Stato tassare e inquadrare ciò che un’altra legge dello Stato vieta e punisce?

L’ISTAT ha chiarito che l’introduzione del codice 96.99.92 non equivale a legalizzare la prostituzione. Si tratta di un adeguamento alla classificazione statistica europea NACE, la quale include anche attività illegali per armonizzare i dati tra Paesi (Codice Ateco per prostitute e escort? Il chiarimento dell’Istat). A livello nazionale, assicurano le autorità, tale codice sarà utilizzato solo per operatori che svolgono attività legali, ad esempio agenzie matrimoniali o di speed date (anch’esse ricomprese nella descrizione) . Le attività illegali come il commercio di servizi sessuali continueranno a essere stimate separatamente nei Conti Nazionali, senza legittimazione fiscale diretta. Dunque, formalmente un’escort non potrebbe iscriversi alla Camera di Commercio dichiarando “fornitura di servizi sessuali”, ma potrebbe semmai registrarsi come “accompagnatrice” (che rientra nel codice) restando nei limiti della legge (accompagnamento puro, senza prostituzione esplicita). Questa zona grigia però genera insicurezza giuridica: se poi l’“accompagnamento” include prestazioni sessuali private, la persona sta di fatto esercitando prostituzione. Si tollera l’autonomia individuale, ma qualsiasi organizzazione rischia di configurare reato.

Un aspetto paradossale è che il Fisco italiano già considera tassabili i redditi da prostituzione, come accennato. La Cassazione nel 2016 ha ribadito che anche in assenza di regolamentazione specifica, “ogni reddito, anche se frutto di attività illecita, è per definizione imponibile” . Dunque l’Agenzia delle Entrate può esigere le imposte da un’escort per i suoi guadagni, pur non esistendo una forma giuridica lecita per quel lavoro. Questo porta al concetto criticato dello “Stato pappone”: lo Stato che incassa tasse sul meretricio senza assumersi la responsabilità di legalizzarlo né proteggere realmente chi lo esercita. Tale ipocrisia normativa è bersaglio sia di critiche “libertarie” (che vorrebbero la piena legalizzazione e tutela del sex work come lavoro) sia di critiche moralistiche (che ritengono inammissibile che lo Stato guadagni sul commercio del corpo). Il dibattito su un eventuale superamento della Legge Merlin è infatti acceso da anni: ci sono stati tentativi di referendum abrogativi (nel 1993 e 1994, falliti) e proposte di legge per riaprire le case chiuse o istituire registri di prostitute . La Corte Costituzionale stessa è stata investita della questione: nel 2019 ha esaminato se punire l’intermediario di prestazioni volontarie tra adulti fosse compatibile con i principi costituzionali di libertà personale ed economica. La Consulta ha tuttavia confermato la legittimità dell’impianto Merlin, privilegiando la tutela della dignità umana e ritenendo le restrizioni giustificate per prevenire sfruttamento e tratta.

In sintesi, senza un intervento legislativo organico, la formalizzazione statistico-fiscale rimane monca. Si potrebbe avere la situazione in cui alcune escort pagano le tasse individualmente (magari dichiarando l’attività in modo generico), ottenendo in cambio riconoscimento fiscale, ma al contempo chiunque provi a strutturare l’attività (un’agenzia, un club, un bordello) rischia incriminazioni. Questa incoerenza normativa a lungo termine sarebbe insostenibile: o si modifica la legge penale per consentire forme controllate di esercizio (come avvenuto in Germania, Olanda, Svizzera), oppure la “formalizzazione” rimane limitata a una contabilizzazione statistica senza veri effetti pratici per gli operatori, se non il rischio di venire tassati su proventi di un’attività non tutelata.

Dal punto di vista giuridico-fiscale, un possibile compromesso sarebbe mantenere il divieto penale dello sfruttamento, ma contestualmente riconoscere la figura del/la sex worker autonomo: una persona maggiorenne e consenziente che offre prestazioni in proprio, potendosi registrare, pagare imposte e godere di diritti, il tutto senza intermediari. Ciò richiederebbe quantomeno una norma ad hoc che chiarisca che l’autonomia professionale non costituisce reato e forse l’istituzione di registri riservati. Finché ciò non avviene, permane il rischio di zone d’ombra: ad esempio, un’escort potrebbe aprire partita IVA come “consulente” o “entertainer” per versare i contributi, ma questa non è una piena soluzione né per lei (priva di un quadro normativo chiaro) né per lo Stato (che incassa in modo casuale e non può controllare né tutelare appieno il settore). In conclusione, la formalizzazione richiede un delicato coordinamento tra diritto penale e fiscale: l’attuale ATECO 96.99.92 da solo evidenzia la contraddizione, fungendo da stimolo per un adeguamento normativo futuro (ad esempio sulla scia dei modelli stranieri, come vediamo nel prossimo punto).

Confronto con modelli europei: Germania, Paesi Bassi e Svizzera
Confronto con modelli europei: Germania, Paesi Bassi e Svizzera (diritto-lavoro.com)

4. Confronto con modelli europei: Germania, Paesi Bassi e Svizzera

Per contestualizzare gli effetti a lungo termine, è utile esaminare l’esperienza di alcuni Paesi europei che hanno legalizzato o regolamentato il sex work da tempo: Germania, Paesi Bassi (Olanda) e Svizzera. Questi Paesi offrono casi di studio significativi sugli impatti di una formalizzazione completa in termini economici, sanitari e di sicurezza sul lavoro.

Germania

La Germania ha legalizzato e regolamentato la prostituzione in forma estesa a partire dal 2002. L’obiettivo dichiarato della legge tedesca era rendere il mestiere “un lavoro come gli altri”, con contratti, protezione sindacale, assistenza sanitaria e diritto alla pensione per le sex worker (L’industria tedesca dei bordelli legaliUn business da 14,5 miliardi di euro | La ventisettesima ora). In teoria, infatti, le prostitute possono operare come dipendenti di club oppure come imprenditrici autonome (la manager di un famoso bordello di Berlino definiva le ragazze “imprenditrici del sesso” ospitate nella sua struttura) (Prostituzione legale: pro e contro nel caso tedesco | L’Espresso). Nei grandi bordelli come l’Artemis di Berlino, ad esempio, le lavoratrici pagano un affitto giornaliero per la stanza (~80€) e poi trattengono i guadagni dei clienti, pagando le tasse dovute al fisco (a Berlino è stata concordata una tassa forfettaria di 30 € al giorno per prostituta da versare al fisco locale). In questo modo lo Stato incassa entrate fiscali regolari – il caso di Berlino viene presentato proprio come “il prezzo da pagare allo Stato per togliere le donne dalla strada e dalle grinfie degli sfruttatori”.

Dal punto di vista economico, la Germania ha sviluppato una vera e propria industria del sesso legalizzata. Si stimava a metà degli anni 2010 un giro d’affari di 14,5 miliardi di euro per l’industria tedesca dei bordelli(addirittura 11 miliardi di sterline secondo altre fonti (Germania: Il bordello d’Europa – Resistenza Femminista). La regolamentazione inizialmente ha migliorato le condizioni di vita di molte prostitute, riducendo i pericoli di un’attività prima clandestina. Tuttavia, col tempo il mercato tedesco è esploso in dimensioni, tanto che la Germania viene spesso definita “il più grande bordello d’Europa”. Si contano circa 3.000 bordelli legali nel Paese (500 solo a Berlino), con format commerciali anche estremi: esistono “mega-bordelli” capaci di accogliere centinaia di clienti simultaneamente, formule “all you can fuck” (un ingresso forfettario 50-100€ con consumazioni e sesso illimitato) (Prostituzione in Germania, gli effetti della legalizzazione – La Ragione), happy hour con sconti, ecc. Ogni giorno in Germania si stima che 1,2 milioni di uomini comprino servizi sessuali – un livello elevatissimo di domanda, alimentata anche dai prezzi relativamente bassi e dalla vicinanza geografica (clienti da Paesi vicini). Questo ha attirato un enorme afflusso di donne migranti dall’Europa dell’Est, dai Balcani, dall’Africa, spesso in condizioni di vulnerabilità. Studi e inchieste suggeriscono che la stragrande maggioranza (fino al 90-95%) delle prostitute in Germania siano donne straniere (soprattutto est-europee) e in molti casi gestite da reti criminali di tratta. Poiché lucrare sul sesso è legale, risulta più difficile individuare i casi di sfruttamento: i “papponi” si camuffano da imprenditori e le donne vengono istruite a dichiararsi autonome, rendendo arduo provare la coercizione . Di fatto, lo sfruttamento della prostituzione (volontaria) non è più un reato in Germania, a meno che il proprietario del bordello non trattenga più del 50% dei guadagni delle lavoratrici– una soglia facilmente eludibile tramite costi e tariffe.

Sul fronte sanitario e della sicurezza del lavoro, la Germania ha introdotto nel 2017 una nuova legge (Prostituiertenschutzgesetz) che prevede obbligo di registrazione per le prostitute presso le autorità, visite sanitarie periodiche e obbligo di uso del preservativo con i clienti. Queste misure mirano a migliorare la tutela della salute (riducendo malattie sessualmente trasmissibili) e la sicurezza (creare un elenco ufficiale facilita i controlli e offre alle lavoratrici colloqui informativi). Al 2021, tuttavia, i numeri ufficiali mostrano che solo 23.700 prostitute risultavano registrate in tutta la Germania. A fronte di stime totali di circa 400.000 operatori del sesso nel Paese, ciò implica che appena il 5-6% ha aderito alla registrazione ufficiale. Inoltre, risultavano autorizzate circa 2.290 imprese di prostituzione (bordelli, club, agenzie) ai sensi della legge 2017. La sproporzione indica che molti continuano a operare nell’irregolarità nonostante la legalizzazione – probabilmente per evitare controlli, tasse o per situazione di sfruttamento. Riguardo alle tutele sociali, è possibile per le prostitute tedesche versare contributi pensionistici (se lavorano come dipendenti, i datori di lavoro devono contribuire; se autonome, possono aderire a sistemi assicurativi). In pratica però poche ne beneficiano: la maggioranza lavora come finte autonome (self-employed) spesso per brevi periodi, senza maturare una carriera contributiva sufficiente.

Gli effetti a lungo termine in Germania presentano dunque luci ed ombre. Da un lato, c’è un settore fiorente che genera introiti fiscali (es. le città incassano tasse forfettarie e IVA), ha reso più sicure e controllate le condizioni per alcune lavoratrici (soprattutto in strutture di alto livello) e consente un accesso a servizi sanitari e legali prima negati. D’altro canto, la disponibilità illimitata e la liceità hanno ampliato il mercato, attirando reti di tratta internazionale e normalizzando situazioni di sfruttamento difficili da perseguire. Molti commentatori (e parte della politica tedesca) oggi parlano di fallimento della legalizzazione “liberale” e chiedono correzioni di rotta. Il governo tedesco già nel 2013 ha dovuto inasprire alcune norme (più controlli nei bordelli, divieto di pubblicizzare sesso senza condom, ecc.) e il dibattito continua. Il caso tedesco mostra che la formalizzazione porta benefici economici e di sicurezza solo se accompagnata da regole rigorose e controlli efficaci; altrimenti, il rischio è di istituzionalizzare un sistema dove poche lavoratrici godono davvero di diritti, mentre molte rimangono vulnerabili “legalmente invisibili” nelle maglie di un mercato enorme. In sintesi, in Germania l’economia emersa del sesso è prospera, ma a prezzo di persistenti problemi di tutela delle persone: la lezione è che la legalizzazione funziona solo parzialmente senza misure aggiuntive di contrasto allo sfruttamento.

Paesi Bassi

I Paesi Bassi hanno legalizzato la prostituzione e soprattutto abolito il divieto di bordelli nel 2000. L’idea, similmente alla Germania, era di trasferire il sex work dal sommerso al regolamentato, dando maggiore autonomia e diritti alle sex worker e facilitando la lotta agli abusi. In Olanda, la prostituzione era già tollerata da tempo, ma dal 2000 i bordelli possono ottenere licenze comunali e le prostitute possono lavorare legalmente in proprio o come dipendenti registrate. Nel famoso quartiere a luci rosse di Amsterdam, ad esempio, le “vetrine” sono affittate da sex workers che operano come imprenditrici indipendenti pagando tasse e contribuendo al sistema sanitario.

Effetti economici: anche nei Paesi Bassi il settore contribuisce all’economia ufficiale, sebbene su scala minore rispetto alla Germania. Si stima che il giro d’affari olandese sia più contenuto (anche a causa della popolazione inferiore); alcune stime indicavano qualche miliardo di euro annuo. L’occupazione regolarizzata include diverse migliaia di sex workers: ad Amsterdam se ne contano alcune migliaia registrate. Tuttavia, con il tempo le autorità olandesi hanno riscontrato che una parte significativa della prostituzione è rimasta fuori dal regime legale. In particolare, molte donne straniere senza documenti (provenienti dall’Europa orientale, dall’Africa o dall’Asia) hanno continuato ad operare illegalmente, spesso vittime di trafficanti, non potendo ottenere licenze. Dopo oltre un decennio dalla legalizzazione, il bilancio era deludente rispetto alle aspettative originarie. Nel 2013, il vicepremier e ministro del Lavoro Lodewijk Asscher ammise che la normativa “non aveva minimamente intaccato lo sfruttamento” delle donne prostituite (Olanda, il mercato della prostituzione è in crisi? – Il Fatto Quotidiano). Di conseguenza, le autorità olandesi hanno iniziato a riconsiderare il modello: da un lato si è valutato di irrigidire le regole per i bordelli (alzando ad esempio l’età minima a 21 anni, introducendo permessi obbligatori per le singole prostitute, etc.), dall’altro si è guardato al “modello nordico” (criminalizzazione dei clienti) come possibile alternativa.

Salute e sicurezza: i Paesi Bassi, fin dall’inizio, hanno puntato molto sulle misure di harm reduction e tutela sanitaria per le sex workers. Ad esempio, ad Amsterdam opera un servizio sanitario municipale (GGD) che offre screening medici gratuiti e anonimi periodici alle prostitute, distribuzione di preservativi e consulenza. Ciò ha contribuito a mantenere relativamente basso il tasso di infezioni sessuali tra le sex worker registrate. Non c’è obbligo legale di test o profilattico nazionale, ma le normative locali e il forte coinvolgimento dei servizi sanitari hanno creato un ambiente in cui è più facile per le operatrici controllare la propria salute. Inoltre, la sicurezza sul lavoro è migliorata nelle aree regolarizzate: le postazioni nelle “vetrine” hanno pulsanti d’allarme collegati con la polizia, e c’è videosorveglianza nei quartieri a luci rosse, il che ha ridotto la violenza contro le prostitute in quelle zone. Uno studio sugli “zone di tolleranza” (tippelzones) olandesi – aree dove la prostituzione su strada è permessa e controllata – ha mostrato risultati positivi: l’apertura di queste zone ha portato a una riduzione del 30-40% dei reati di violenza sessuale (stupri, abusi) in città nei due anni successivi (Breaking taboos and making policy). Il raggruppamento delle attività in zone sorvegliate, con maggiore presenza di polizia, sembra aver reso le città più sicure sia per le sex worker sia per la collettività. Questo indica che legalizzare e regolamentare può ridurre la criminalità correlata, se ben gestito.

Tuttavia, i problemi restano. Gli ispettori olandesi segnalano che traffico di esseri umani e coercizione continuano a sussistere. Alcuni quartieri a luci rosse (come ad Amsterdam) hanno visto aumentare la concentrazione di criminali che sfruttano il business legale per coprire attività illecite (riciclaggio, sfruttamento di minorenni) – tanto che il comune di Amsterdam ha avviato nel 2007 il progetto “Sperimentazione Gesloten” chiudendo diverse vetrine e locali sospettati di legami con la criminalità organizzata. In parallelo, è emerso che molte prostitute legalmente indipendenti in realtà dipendono economicamente da terzi (pappone o “protettore”) che restano nell’ombra. Questo rende difficili i controlli: la semplice legalizzazione non elimina automaticamente la figura dello sfruttatore, che può mascherarsi meglio.

Gli effetti a lungo termine nei Paesi Bassi mostrano quindi un quadro misto: economicamente, il settore è integrato (tasse e impieghi regolari), sanitariamente c’è un buon sistema di prevenzione e riduzione dei rischi (tanto che l’Olanda è considerata un modello per interventi sanitari a bassa soglia nel sex work), sul piano della sicurezza c’è stato un calo della violenza di strada grazie alle zone controllate. D’altra parte, socialmente e legalmente, il problema dello sfruttamento non è sparito; anzi, è servito un rafforzamento normativo successivo. Recentemente, i Paesi Bassi stanno introducendo ulteriori restrizioni (divieto di prostituzione sotto 21 anni, divieto di pubblicità aggressiva, piani per spostare le vetrine di Amsterdam fuori dal centro turistico ecc.). In conclusione, l’Olanda insegna che la formalizzazione funziona bene per la fascia “alta” e volontaria del mercato (dando tutela sanitaria e protezione dai reati comuni), ma fatica a scalfire le sacche di sfruttamento e illegalità più profonde, richiedendo un adattamento continuo delle politiche.

Svizzera

La Svizzera rappresenta un caso particolare poiché ha un approccio federale e decentrato: la prostituzione è legale a livello federale (consentita tra adulti consenzienti), ma ogni Cantone può regolamentarla con proprie disposizioni amministrative e di polizia. In generale, il quadro svizzero è molto liberale: vendere servizi sessuali è lecito e considerato un’attività lavorativa indipendente. Non esiste una legge specifica di legalizzazione (non ce n’è mai stato bisogno in quanto non vigeva un divieto come la Merlin), ma vi sono normative penali contro la tratta e lo sfruttamento (simili a quelle italiane, che puniscono chi induce o sfrutta) e regolamenti locali per l’esercizio. Ad esempio, nel Cantone Ticino la legge richiede che ogni persona che esercita la prostituzione debba annunciarsi alla Polizia cantonale senza indugio (CAN – Raccolta delle leggi del Cantone Ticino). Questo equivale a un sistema di registrazione obbligatoria locale, finalizzato a monitorare chi opera e verificare il rispetto delle condizioni (età minima, validità del permesso di soggiorno se straniera, luogo autorizzato, ecc.). Altri cantoni, come Ginevra, hanno regolamenti che limitano le zone, gli orari, e impongono visite sanitarie periodiche e colloqui informativi obbligatori per chi si registra come sex worker.

Economia e fisco: In Svizzera la prostituzione è considerata un lavoro autonomo o un’attività lucrativa dipendente a seconda dei casi (ci sono anche saloni erotici dove le donne lavorano come dipendenti con stipendio). In entrambi i casi, i redditi sono soggetti a tassazione e i gestori dei locali devono richiedere licenze. Nonostante ciò, come altrove, molto reddito potrebbe sfuggire al fisco a causa di pagamenti in contanti e prostitute non dichiarate. Non ci sono stime precise nazionali (le autorità svizzere sottolineano che “non vi sono cifre attendibili” e molte stime sono approssimative (Prostituzione e tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento sessuale. Rapporto del Consiglio federale in adempimento dei postulati 12.4162 Streiff-Feller, 13.3332 Caroni, 13.4033 Feri e 13.4045 Fehr; 5 giugno 2015), ma è chiaro che il mercato è molto lucrativo e attira anche in Svizzera molte persone dall’estero (specie UE dell’Est e America Latina). Ad esempio, si calcola che a Zurigo operino diverse migliaia di sex worker, molte con permessi turistici brevi. Sul fronte fiscale, la Confederazione non applica IVA alle prestazioni di prostituzione (essendo prestazioni di servizio fornite sul territorio, se l’operatore è indipendente credo possano ricadere nell’esenzione come prestazioni sanitarie o artistiche, ma dipende dalle norme locali), tuttavia impone che i redditi siano dichiarati come redditi da attività lucrativa. Un problema peculiare è la presenza di prostitute straniere con permessi temporanei: la Svizzera a volte rilascia permessi L di breve durata per “balletto” o “attività artistica” che di fatto coprono lavoro in nightclub e case di appuntamenti; queste persone pagano imposte alla fonte e sono registrate ufficialmente durante la loro permanenza.

Sanità e sicurezza del lavoro: I Cantoni svizzeri possono emanare prescrizioni per tutelare la salute e l’igiene sul posto di lavoro. Molti cantoni richiedono che nei locali di prostituzione siano garantiti controlli sanitari di base, ambienti puliti e misure preventive. Ad esempio, alcune ordinanze cantonali prevedono che nei bordelli ci siano servizi igienici e docce adeguati, e che vengano forniti profilattici gratuitamente o al più al prezzo di costo alle prostitute. Inoltre, spesso è obbligatorio un colloquio sanitario e informativo per chi si registra: in alcuni cantoni, quando la persona notifica l’inizio attività, viene invitata presso un servizio socio-sanitario che fornisce informazioni sulle malattie sessuali, sui diritti, sulle associazioni di supporto e sull’assicurazione malattia. In Svizzera vige l’obbligo di assicurazione sanitaria per tutti i residenti, quindi anche le prostitute (anche straniere temporanee devono sottoscrivere polizze di copertura sanitaria). Questo fa sì che, almeno sul piano formale, tutte le sex worker regolari abbiano accesso all’assistenza sanitaria di base. Non tutti però ne usufruiscono facilmente: barriere linguistiche, paura o mobilità fanno sì che alcune evitino i controlli medici. C’è evidenza che una parte delle prostitute (soprattutto le più marginalizzate, es. su strada) non viene raggiunta dalle misure sanitarie e di prevenzione messe in campo, analogamente ad altri Paesi.

Quanto alla sicurezza sul lavoro, essendo attività lecita, le lavoratrici del sesso svizzere possono rivolgersi alla polizia in caso di violenze o minacce senza incriminarsi (al contrario di chi esercita in Paesi dove è illegale). La polizia cantonale svolge controlli periodici nei locali autorizzati per verificare il rispetto delle regole (niente minorenni, condizioni igieniche, presenza dei permessi, ecc.). Ciò offre un certo grado di protezione: ad esempio, a Zurigo sono stati creati dei “sex-box” (aree di posteggio controllate per prostituzione su strada) dove le donne lavorano in spazi delimitati, con addetti alla sicurezza presenti e pulsanti di allarme – un sistema introdotto nel 2013 per migliorare la sicurezza delle prostitute di strada e il decoro urbano. I risultati finora indicano una diminuzione delle aggressioni segnalate e un maggior contatto tra servizi sociali e sex worker. La Svizzera pone molta enfasi anche sulla lotta alla tratta: nonostante la legalità, riconosce che lo sfruttamento esiste e cerca di combatterlo (sebbene il governo svizzero abbia ammesso che proibire o liberalizzare la prostituzione di per sé “non permette di gestire tutti gli effetti collaterali… servono misure complementari”, e che anche nei Paesi proibizionisti la tratta prospera, quindi la questione è complessa).

Effetti a lungo termine in Svizzera: Il modello elvetico, frammentato per cantoni, ha prodotto contesti molto diversi all’interno del Paese. Complessivamente, la prostituzione legale non ha provocato scandali sociali né particolari emergenze sanitarie – è integrata da decenni. L’economia del settore è relativamente stabile e visibile (in alcune città come Zurigo e Ginevra esistono quartieri a luci rosse ben noti). Dal punto di vista delle sex worker, la Svizzera offre un ambiente abbastanza sicuro e controllato per chi è regolare, ma anche qui permangono sacche di irregolarità (soprattutto donne straniere senza permesso, spesso clandestine, e quindi fuori da ogni controllo e tutela). Gli osservatori notano che la Svizzera, malgrado la legalità, non è immune dallo sfruttamento: i casi di tratta emersi ci sono e richiedono indagini lunghe e specializzate, spesso ostacolate dalla mancanza di risorse nelle polizie locali. In altre parole, la legge da sola non basta a eliminare gli abusi, se non è applicata con mezzi adeguati.

Un insegnamento importante dalla Svizzera è la necessità di bilanciare libertà e controlli: i cantoni devono emanare regole proporzionate (non troppo oppressive da spingere nell’illegalità, né troppo lasche da permettere il far west). Ad esempio, se un cantone pone requisiti troppo stringenti o costosi, rischia di “spostare” la prostituzione nel cantone vicino o nell’illegalità; se non regola affatto, rischia di attirare e concentrare attività criminali. Questo equilibrio dinamico è frutto di aggiustamenti continui. A livello federale, si è riconosciuto che dati certi sono scarsi e che è “praticamente impossibile valutare con piena cognizione” l’evoluzione del fenomeno, date le tante componenti sommerse. Ciò suggerisce che anche con legalizzazione, il monitoraggio statistico e sociale rimane una sfida.

Conclusioni comparative: Dall’analisi di Germania, Olanda e Svizzera si evince che la formalizzazione del sex work può portare benefici tangibili, ma anche che nessun approccio è privo di conseguenze indesiderate. In tutti e tre i Paesi, l’inclusione dell’attività nell’economia formale ha generato entrate fiscali (IVA, tasse forfettarie, imposte su reddito) e permesso a molte lavoratrici di operare in condizioni igieniche e di sicurezza migliori che in passato. Inoltre, ha facilitato interventi di sanità pubblica (campagne informative, distribuzione di preservativi, controlli volontari) e reso possibile la denuncia di reati senza auto-incriminazione, migliorando la tutela dei diritti di chi si prostituisce volontariamente. D’altra parte, si rilevano alcuni effetti a lungo termine critici: una tendenza all’aumento della domanda di sesso a pagamento (soprattutto in Germania, dove la liberalizzazione ne ha ampliato la portata commerciale), la persistenza di sfruttamento e tratta celati dietro le pieghe della legalità (tutti riportano percentuali alte di sex worker straniere vulnerabili, spesso controllate da reti criminali) e una difficoltà nel far emergere totalmente il settore (molte prostitute restano non registrate per scelta o coercizione).

Per quanto riguarda economia sommersa vs legale, sia Germania che Olanda hanno dovuto riconoscere che una quota del mercato rimane sommersa nonostante la legalità – segno che la legalizzazione non elimina automaticamente l’illegalità correlata. Sul fronte della sanità, i risultati sono positivi dove ci sono politiche attive di prevenzione: ad esempio, grazie a obblighi di condom e registrazione, la Germania ha cercato di controllare la diffusione di HIV/IST; l’Olanda e la Svizzera hanno mantenuto bassi i tassi di infezioni tra le sex worker seguite dai servizi. Tuttavia, senza aderire alla registrazione, molte non beneficiano di queste misure (in Germania infatti dall’introduzione dell’obbligo molte migranti sono semplicemente migrate in circuiti clandestini, vanificando in parte l’obiettivo sanitario). Sicurezza del lavoro: nei Paesi analizzati le aggressioni gravi e gli omicidi di prostitute sono diminuiti rispetto a quando era clandestino (soprattutto grazie a zone controllate e presenza delle forze dell’ordine), ma rimangono alti i livelli di violenza psicologica e di sfruttamento economico in contesti “legali” ma dominati da clienti violenti o protettori senza scrupoli.

L’esperienza internazionale suggerisce che formalizzare statisticamente e fiscalmente attività come escort e prostituzione è solo il primo passo. Servono poi norme e strumenti attuativi efficaci: controlli rigorosi per prevenire abusi, supporto socio-sanitario costante alle/i sex worker, percorsi di fuoriuscita per chi vuole lasciare il mestiere, contrasto attivo alla tratta. Senza questi correttivi, si rischia di ottenere solo benefici economici parziali a fronte di persistenti costi sociali. Viceversa, con un approccio olistico, la formalizzazione può portare benefici a lungo termine: riduzione dell’economia sommersa, maggiore tutela della salute pubblica, diminuzione della criminalità di strada e un contesto più sicuro per tutti gli attori coinvolti. Come notato nel rapporto del Consiglio Federale svizzero, né il divieto assoluto né la liberalizzazione totale risolvono da soli i problemi – è necessario un mix di misure intelligenti. L’Italia, se vorrà procedere verso la formalizzazione (superando le contraddizioni della Legge Merlin), potrà far tesoro di queste esperienze estere per massimizzare i pro (recupero di PIL e gettito, diritti per i lavoratori, controllo sanitario) e minimizzare i contro (zone grigie di illegalità, rischi di sfruttamento), adattando le soluzioni al proprio contesto socio-culturale.

Fonti: Istat (conti economici non osservati), ANSA, Quotidiano.net, Adnkronos, Codacons, Avvenire, L’Arena, Corriere della Sera/27esima Ora, L’Espresso, La Ragione, Il Fatto Quotidiano, documenti parlamentari italiani, rapporti del Consiglio Federale svizzero.