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La Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con Ordinanza 23 marzo 2020 n. 7483, ha stabilito che la quantificazione del risarcimento del danno professionale per demansionamento deve essere effettuata tenendo conto sia della durata che dell’entità della condotta datoriale.

La Corte ha infatti ribadito che il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma esso può essere provato dal lavoratore, ai sensi dell’articolo 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (cfr. Cass. 03/01/2019 n. 21).

COSA SI INTENDE PER DEMANSIONAMENTO

Ma cosa si intende esattamente per demansionamento? Come è noto, la professionalità del lavoratore è garantita dall’art. 2103 c.c., il quale stabilisce il divieto per il datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle concordate al momento dell’assunzione, tranne nel caso in cui ricorrano le condizioni di cui al comma 2 e 4 (e cioè in caso di modifica degli assetti organizzativi ed nei casi previsti dal contratto collettivo). Questa norma ha carattere imperativo e ciò significa che le parti non possono derogarvi. Precisa infatti il comma 9 e l’ultimo dell’art. 2103 c.c. che “Ogni patto contrario è nullo”.

GLI ACCORDI INDIVIDUALI PER IL MUTAMENTO DELLE MANSIONI – PROCEDURA

Di recente il D.Lgs. n. 81 del 2015, novellando il comma 6 del citato art. 2103 c.c., ha stabilito che potranno essere stipulati accordi individuali che prevedano il mutamento delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della retribuzione esclusivamente nelle sedi protette (art. 2213, comma 4, c.c.) o innanzi alle Commissioni di Certificazione, esclusivamente nel caso in cui tali modifiche siano necessarie all’interesse del lavoratore, alla tutela del posto di lavoro, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

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In tali ipotesi è facoltà del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante dell’organizzazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato oppure da un avvocato o da un consulente del lavoro.

COSA COMPORTA L’INOSSERVANZA DELLA PROCEDURA

L’inosservanza di tale procedura comporterà la nullità del patto di demansionamento e il lavoratore avrà la possibilità di richiedere l’adibizione alle mansioni precedentemente svolte, le differenze retributive ed infine l’eventuale risarcimento del danno, proprio perché per la legge il semplice consenso del lavoratore non è sufficiente a dare validità al patto stesso.

LA GIURISPRUDENZA SUL DANNO PROFESSIONALE DA DEMANSIONAMENTO

Relativamente all’art. 2113 c.c. (prima della riforma di cui al D.Lgs. 81/2015) la giurisprudenza affermava che nella comparazione delle mansioni “non è sufficiente ancorarsi in astratto al livello di categoria ma occorrerà accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali ed a condizione che risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare ed anzi di arricchire il patrimonio professionale acquisito in una prospettiva dinamica di valorizzazione del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze (Cass n. 4773 del 2004).

Più recentemente invece, la giurisprudenza ha invece precisato che “non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che invece implica una sottrazione di mansione tale…da comportare un abbassamento del global e livello delle prestazioni del lavoratore con sottilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguenziale impoverimento della sua professionalità” (Cass. n. 22488 del 2019). Ed ancora, “l’adibizione a mansioni inferiori in maniera non prevalente ed assorbente non viola i limiti esterni dello ‘ius variandi’ del datore di lavoro né il diritto alla tutela della professionalità solo qualora tali mansioni siano non solo accessorie ma risultino, ad esempio, funzionali alla tutela della sicurezza e della salubrità dell’ambiente di lavoro” (Cass. n. 8910 del 2019).

Pertanto la giurisprudenza ha consentito in alcuni casi – derogando alle statuizioni dell’art. 2103 c.c. – la possibilità di modificare in peggio le condizioni di lavoro, ma solo nel caso in cui sia sopravvenuta una inidoneità del lavoratore a svolgere le mansioni precedenti, sia per ragioni di salute che per evitare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, o in presenza di una richiesta specifica del lavoratore.

IL RISARCIMENTO DEL DANNO PROFESSIONALE

In sede giudiziale, l’illegittimo demansionamento, potrà determinare in favore del lavoratore un risarcimento del danno morale, biologico e professionale proprio perché la dequalificazione costituisce uno svilimento della professionalità acquisita dal lavoratore e dunque – per la cassazione – una lesione del diritto del lavoratore alla “libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro”. E tale lesione provocherà sicuramente un pregiudizio nella vita professionale e di relazione del lavoratore che un’indubbia dimensione patrimoniale che lo rende “suscettibile di risarcimento, determinabile anche in via equitativa”.
Per la quantificazione in via equitativa del danno, la Cassazione ha stabilito che il giudice dovrà tener conto “della natura della professionalità coinvolta, della durata del demansionamento e di tutte le altre circostanze concrete connesse al rapporto lavorativo” (Cass. n. 8893 del 2010).

Ad avviso della Cassazione, poi, non solo i danni patrimoniali vengono risarciti, ma anche i c.d. danni non patrimoniali. Infatti, il danno non patrimoniale che ricomprende anche il danno di tipo esistenziale, deve essere risarcito quando sia conseguenza, come nel caso di dequalificazione professionale del lavoratore subordinato, di una lesione in ambito di responsabilità contrattuale di diritti inviolabili costituzionalmente garantiti e che la sussistenza di tale danno possa essere provata anche a mezzo di presunzioni semplici, sulle quali il giudice può fondare in via esclusiva il proprio convincimento” (Cass. n. 22288 del 2017)

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