Advertisement

Giusta causa di licenziamento e mansioni del dipendente:

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24030 del 2016, è intervenuta in tema di giusta causa di licenziamento, stabilendo il seguente principio di diritto: la valutazione della congruità del licenziamento va fatta tenendo presente sia il fatto contestato al lavoratore, ma anche al grado di affidamento richiesto dalle mansioni da lui svolte, alla qualifica rivestita, ai danni eventualmente arrecati, alle circostanze dei fatti verificatisi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo.

E di giusta causa di licenziamento alla luce dei principi espressi nella sentenza 24030/2016 ci parla anche l’articolo pubblicato oggi (25.11.2016) dal Sole 24 Ore (Firma: Angelo Zambelli; Titolo: “Giusta causa correlata alle mansioni”) che vi proponiamo.

Ecco l’articolo.

Nel valutare la legittimità di un licenziamento per giusta causa si deve tener conto del ruolo ricoperto in azienda dal lavoratore, in particolare se caratterizzato da elementi di responsabilità, e della correlazione tra comportamento pregresso e fatti contestati nel caso specifico.

Con la sentenza 24030/2016 depositata ieri, la Corte di cassazione è nuovamente intervenuta sul tema del licenziamento per giusta causa, delineando i criteri per la valutazione della gravità della condotta contestata al dipendente.

Nel caso in esame, la Corte di appello di Napoli, confermando la pronuncia emessa dal tribunale, ha dichiarato l’illegittimità del provvedimento espulsivo di un dipendente con mansioni di «responsabile della produzione dell’intero stabilimento», disponendone la reintegrazione in base all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori nella versione antecedente la riforma Fornero.

La Corte di merito, infatti, ha ritenuto che le plurime condotte allo stesso addebitate – consistite nell’aggressione verbale nei confronti di una collega nonchè nel comportamento estorsivo tenuto ai danni del fratello della dipendente aggredita – non fossero idonee a integrare la giusta causa di recesso. Ad avviso dei giudici di appello il primo fatto non integrava la fattispecie delineata dall’articolo 55 del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore gomma e plastica, mancando la «grave turbativa alla vita aziendale», mentre il secondo non era stato provato dal datore di lavoro.

Anche i precedenti disciplinari richiamati dalla società nella lettera di contestazione non rivestivano – sempre ad avviso della Corte d’appello – particolare gravità, trattandosi di «violazioni di scarso rilievo».

Nel giudizio di legittimità la Suprema corte ha ritenuto privo di pregio il percorso logico-giuridico sopra riportato, in quanto «il procedimento di valutazione del giudice di merito si è erroneamente concentrato sul disvalore di ciascun precedente disciplinare invece che correttamente attenersi a considerare la loro incidenza sulla connotazione di gravità dei due addebiti contestati».

Consapevole che la definizione del concetto di «giusta causa» ha creato non poche tensioni interpretative – essendo l’articolo 2119 del codice civile una sorta di canone neutro che attraverso la funzione nomofilattica della Corte di cassazione viene riempito di contenuto – la Suprema corte richiama il proprio orientamento al fine di individuare i parametri per la valutazione della gravità della condotta.

Attraverso un excursus giurisprudenziale, infatti, i giudici rammentano che la valutazione circa la gravità del fatto contestato e il conseguente giudizio di proporzionalità tra lo stesso e la sanzione espulsiva deve essere condotto con riferimento agli aspetti concreti della vicenda, attraverso un’analisi che tenga in debita considerazione la tipologia del singolo rapporto, la posizione delle parti, il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni espletate dal dipendente, il nocumento eventualmente arrecato nonchè la portata soggettiva dei fatti stessi, ovverosia i motivi della condotta e l’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo.

Sulla scorta di tali principi, la Cassazione – in accoglimento del ricorso promosso dalla società – ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, non avendo la Corte d’appello effettuato un congruo esame circa la gravità della condotta anche sotto il profilo del grado di affidamento richiesto al dipendente, in ragione delle mansioni svolte – responsabile di produzione – e della qualifica dallo stesso rivestita.

Advertisement