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Licenziamento disabili consentito solo su parere commissione medica

Il licenziamento del lavoratore invalido, avviato al lavoro a mezzo delle liste di collocamento per disabili, è legittimo solamente se l’impossibilità di reinserimento all’interno dell’azienda venga accertata da apposita Commissione medica. È quanto stabilito dalla Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione con la sentenza del 5 marzo – 10 aprile 2014 n. 8450 (Presidente Stile – Relatore Amendola), la quale ha respinto il ricorso di un’azienda che aveva impugnato la sentenza resa dalla Corte di Appello di Palermo la quale aveva disposto la reintegra del lavoratore.

Ecco di seguito il testo integrale.

Svolgimento del processo

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1.— La Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 26 giugno 2013, riformando la pronuncia di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dalla Sunfood s.r.l. nei confronti di B.P. in data 12 gennaio 2008, condannando la società a reintegrarlo nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno subito.

La Corte territoriale ha riformato la sentenza del primo giudice per non aver considerato che il B. era stato assunto come soggetto invalido avviato al lavoro tramite le apposite liste di collocamento dei disabili e che, per tale qualità, il recesso poteva ritenersi legittimo solo in presenza delle condizioni previste dall’art. 10 della L. n. 68 del 1999.

Poiché la valutazione in ordine alla definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda, anche attuando i possibili adattamenti all’organizzazione del lavoro, è riservata esclusivamente alla Commissione di cui all’art. 10, comma 3, di detta legge, secondo la sentenza qui impugnata la Sunfood S.r.l. avrebbe potuto validamente intimare il recesso soltanto nel caso in cui l’organo sanitario avesse ravvisato tale impossibilità.

La Corte palermitana, dunque, constatato che la datrice di lavoro aveva adottato il provvedimento risolutivo sulla base di una propria valutazione del giudizio espresso dal Comitato tecnico provinciale per l’inserimento dei disabili e dal medico competente aziendale, ha dichiarato illegittimo il licenziamento.

2.— Il ricorso della Sunfood Srl ha domandato la cassazione della sentenza per due motivi. Ha resistito l’intimato con controricorso.

Motivi della decisione

1.— Con il primo motivo di ricorso, si denuncia, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c, violazione o falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c. nonché vizi di motivazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.

Ci si duole che, nonostante l’eccezione preliminarmente formulata dalla società appellata di inammissibilità del gravame “per mancanza di specifici motivi e/o per ripetitività dell’atto rispetto al ricorso introduttivo di primo grado”, la Corte territoriale l’abbia disattesa sull’inadeguato assunto che l’appellata aveva “svolto una difesa analitica e completa”.

Il motivo, così come formulato, è inammissibile.

La società ricorrente – che ha erroneamente rubricato il vizio prospettato come error in judicando e come difetto di motivazione, anziché come vizio di nullità afferente l’attività svolta nel processo ascrivibile al paradigma dell’error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – ha, infatti, violato il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione oramai canonizzato nell’art. 366, co. 1, n. 6), c.p.c.

Invero ha omesso di indicare specificamente i contenuti dell’atto processuale – nella specie l’appello della controparte – su cui fonda la doglianza di difetto di specificità dei motivi di impugnazione.
Si limita a riportarne stralci, al solo fine di una comparazione con l’originario ricorso introduttivo ma che non consente una valutazione compiuta dei motivi d’appello per sindacarne l’asserita insufficienza in modo complessivo, impedendo così, in mancanza della descrizione del fatto processuale, di procedere alla preliminare verifica di ammissibilità del motivo di ricorso mediante accertamento della rilevanza e decisività del vizio denunciato rispetto alla pronuncia impugnata per cassazione.

Proprio nel caso di censure che riguardino la denunciata genericità dei motivi di appello questa Corte ha ritenuto condizione di ammissibilità del ricorso la trascrizione per esteso del contenuto dell’atto di appello (Cass. n. 12664 del 2012) ovvero l’indicazione dell’impianto specifico dei motivi di appello formulati dalla controparte ed asseritamente affetti da nullità (Cass. n. 9734 del 2004; conforme: Cass. n. 86 del 2012).

Tale ultima pronuncia ha chiarito che l’”esigenza di astensione del giudice di legittimità dalla ricerca del testo completo degli atti processuali attinenti al vizio denunciato, non è giustificata da finalità sanzionato rie nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge; ma risulta, piuttosto, ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nell’individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura”.

Né può soccorrere alla parte ricorrente la qualificazione giuridica del vizio lamentato come error in procedendo, in relazione al quale la Corte è anche “giudice del fatto”, con la possibilità di accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito.

Invero le Sezioni unite della Cassazione hanno statuito che, nei casi di vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, il giudice di legittimità, pur non dovendo limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, “è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4)” (Cass. SS. UU. n. 8077 del 2012).

Dunque la parte ricorrente è tenuta ad indicare gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, affinché il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (Cass. n. 9734 del 2004; Cass. n. 6225 del 2005), senza limitarsi a rinviare all’atto di appello, dovendo riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (cfr. Cass. n. 20405 del 2006; Cass. n. 23420 del 2011; Cass. n. 86 del 2012).

2.— Con il secondo mezzo si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ovvero dell’art. 10 della L. n. 68 del 1999 nonché degli artt. 2087 c.c. e 41 Cost.

Si obietta che, su iniziativa del lavoratore, la Commissione medica non l’aveva dichiarato completamente inabile al lavoro, bensì abile con la limitazione di evitare la “prolungata stazione eretta”. Poiché però nell’organizzazione aziendale non vi erano posizioni lavorative compatibili con tale limitazione era stato necessario licenziare il lavoratore.

Il motivo è infondato per le ragioni, correttamente richiamate dalla Corte territoriale, espresse da Cass. n. 15269 del 2012 al cui insegnamento occorre dare continuità.

La L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 3, prescrive che “Nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro, il disabile può chiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato di salute. Nelle medesime ipotesi il datore di lavoro può chiedere che vengano accertate le condizioni di salute del disabile per verificare se, a causa delle sue minorazioni, possa continuare ad essere utilizzato presso l’azienda. Qualora si riscontri una condizione di aggravamento che, sulla base dei criteri definiti dall’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’art. 1, comma 4, sia incompatibile con la prosecuzione dell’attività lavorativa, o tale incompatibilità sia accertata con riferimento alla variazione dell’organizzazione del lavoro, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibilità persista. Durante tale periodo il lavoratore può essere impiegato in tirocinio formativo. Gli accertamenti sono effettuati dalla commissione di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 4 integrata a norma dell’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’articolo 1, comma 4, della presente legge, che valuta sentito anche l’organismo di cui al D.Lgs. 23 dicembre 1997, n. 469, art. 6, comma 3, come modificato dall’art. 6 della presente legge. La richiesta di accertamento e il periodo necessario per il suo compimento non costituiscono causa di sospensione del rapporto di lavoro. Il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda”.

Tale norma, ha sostituito la precedente norma speciale (L. n. 482 del 1968, art. 10 in rel. all’art. 20 della stessa legge), con riferimento alla quale questa Corte (v. Cass. n. 10347 del 2002) ha affermato il principio secondo cui, “il licenziamento dell’invalido assunto in base alla normativa sul collocamento obbligatorio segue la generale disciplina normativa e contrattuale sol quando è motivato dalla comuni ipotesi di giusta causa e giustificato motivo, mentre, quando è determinato dall’aggravamento dell’infermità che ha dato luogo al collocamento obbligatorio, è legittimo solo in presenza delle condizioni previste dalla L. n. 482 del 1968, art. 10 ossia la perdita totale della capacità lavorativa o la situazione di pericolo per la salute e l’incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti, accertati dall’apposita commissione medica”.

Tale principio di specialità va ribadito anche in relazione alla nuova normativa, con riguardo alle condizioni e modalità ivi previste (competenza speciale della commissione di cui alla L. n. 104 del 1992, come appositamente integrata e con valutazione “sentito anche” l’organismo di cui al D.Lgs. n. 469 del 1997, art. 6, comma 3; verifica se il disabile, a causa delle sue minorazioni, possa continuare ad essere utilizzato presso l’azienda; possibilità di risoluzione del rapporto soltanto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda”).

“La verifica di tali condizioni, poi, è categoricamente riservata alla competenza della apposita commissione, che valuta le condizioni stesse in funzione della maggior tutela riservata ai disabili (per i quali ai fini della risoluzione del rapporto è necessaria la definitiva impossibilità di reinserimento all’interno dell’azienda anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro)” (in termini: Cass. n. 15269 del 2012).

Poiché nella specie è pacifico che il licenziamento del B. non è stato preceduto da un accertamento effettuato dalla Commissione di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 4, integrata a norma dell’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’art. 1, co. 4, della L. n. 68 del 1999, che abbia valutato, sentito anche l’organismo di cui al d. lgs. n. 469 del 1997, art. 6, co. 3, come modificato dall’art. 6 della L. n. 68 del 1999, la definitiva impossibilità di reinserire il B. all’interno dell’azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la pronuncia della Corte territoriale ha fatto corretta applicazione delle norme di diritto cui è sussumibile la fattispecie concreta.

3.— Pertanto il ricorso deve essere rigettato.

Il criterio della soccombenza governa le spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, L. n. 228 del 2012, “Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. L’art. 1 comma 18 della L. n. 228 del 2012 ha disposto che “Le disposizioni di cui al comma 17 si applicano ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della presente legge.” Poiché il ricorso per cassazione, poi respinto, risulta nella specie notificato in data 5 novembre 2013 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui innanzi.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 3.500,00 per compensi professionali, Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, 1. n. 228 del 2012, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso medesimo a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13“.

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