Cambiare lavoro spesso è diventata quasi un’abitudine, nel mercato del lavoro odierno. Ma è una buona abitudine?
Negli ultimi anni il mercato del lavoro è diventato sempre più fluido. Cambiare impiego frequentemente non è più visto come un’anomalia, ma come una tappa naturale del percorso professionale. Giovani e meno giovani si spostano da un’azienda all’altra alla ricerca di migliori condizioni, nuove sfide o un maggiore equilibrio tra vita privata e lavoro.

Tuttavia, questa mobilità crescente può avere conseguenze rilevanti sulla pensione, soprattutto quando si traduce in carriere discontinue e frammentate. Ma in che modo incide davvero sulla pensione il cambiare lavoro troppe volte?
Carriere discontinue e contributi frammentati
Il sistema pensionistico italiano si basa sul principio contributivo: più contributi si versano e per un periodo più lungo, maggiore sarà la pensione percepita. Le carriere discontinue – caratterizzate da interruzioni, contratti a termine e cambi frequenti di occupazione – determinano periodi senza versamenti, oppure versamenti irregolari o in misura ridotta. Questo può portare a una pensione finale più bassa o, nei casi più estremi, a non avere affatto diritto a un trattamento pensionistico.

Secondo i dati diffusi dall’Istat nel maggio 2025, la questione è già evidente nella fascia di popolazione tra i 65 e i 74 anni. Il 68,3% delle donne percepisce una pensione, contro l’87,7% degli uomini. Ancora più preoccupante è che il 26,8% delle donne in quella fascia d’età non lavora e non percepisce alcuna pensione. Una situazione molto più rara tra gli uomini, dove la percentuale scende al 5,7%. Questi numeri fotografano con chiarezza le conseguenze di una vita lavorativa interrotta o breve.
Le donne sono le più colpite dagli effetti delle carriere discontinue. Le ragioni sono diverse: spesso affrontano interruzioni per maternità, cura dei figli o di familiari anziani. In molte regioni del Sud Italia, inoltre, le opportunità lavorative per le donne sono più scarse, soprattutto per chi ha un basso livello di istruzione. L’abbandono del lavoro per motivi familiari è ancora una realtà molto diffusa, e le ricadute sulla pensione futura possono essere drammatiche.
Anche i lavoratori autonomi o con contratti precari (co.co.co., partite IVA occasionali, lavoro intermittente) sono a rischio, perché spesso i contributi versati sono più bassi o discontinui. Se non adeguatamente pianificata, questa condizione può compromettere la stabilità economica nella vecchiaia.
Nonostante le difficoltà, esistono diversi strumenti che possono aiutare i lavoratori con carriere frammentate a proteggere la propria pensione. Controllare regolarmente l’estratto conto contributivo: è importante verificare che tutti i periodi lavorativi risultino registrati correttamente presso l’INPS. Eventuali errori o mancanze vanno segnalati tempestivamente. Riscattare i periodi non lavorati: è possibile riscattare gli anni di laurea, il servizio militare o altri periodi privi di contribuzione. Sebbene comporti un costo, può aumentare significativamente l’importo della pensione o permettere di raggiungere prima i requisiti minimi. Aderire a un fondo pensione integrativo: la previdenza complementare è una risorsa fondamentale per chi sa che la sola pensione pubblica potrebbe non essere sufficiente. Anche versamenti minimi, se iniziati in giovane età, possono generare una rendita utile nella terza età.
Evitare interruzioni non necessarie: ogni periodo non coperto da contribuzione abbassa la media retributiva e riduce l’anzianità contributiva. Prima di lasciare un impiego, è consigliabile valutare bene il tempo necessario per trovarne un altro. Accumulare anni di contribuzione anche con lavori part-time o temporanei: anche brevi impieghi, se regolarmente retribuiti e registrati, aiutano a costruire una carriera contributiva più solida.




