La Cassazione chiarisce i limiti della responsabilità del datore di lavoro: non sempre l’infortunio è colpa dell’azienda
I luoghi di lavoro possono nascondere rischi che nel peggiori dei casi portano a infortuni gravi se non proprio letali. Ovviamente i rischi non sono tutti uguali e cambiano d’ intensità in base al tipo di lavoro. Lavorare su un tetto di una casa non ha lo stesso rischio di chi è seduto in un ufficio davanti ad un computer. Se è vero che la legge tutela il lavoratore in modo rigoroso, non sempre un incidente sul posto comporta automaticamente la colpa del datore. In alcuni casi, infatti, le azioni del dipendente superano i confini della prudenza, finendo per sollevare l’azienda da ogni responsabilità.
Recentemente, la Corte di Cassazione ha affrontato proprio una situazione di questo tipo. Un grave infortunio, un lavoratore inesperto e un macchinario pericoloso hanno messo alla prova i confini della responsabilità penale dell’imprenditore. Il verdetto? Più complesso di quanto possa sembrare a prima vista.
La sentenza in questione, la n. 22843 del 2025, apre una riflessione importante: quando è davvero colpa del datore di lavoro? E quando, invece, l’imprudenza del lavoratore spezza quel legame diretto tra azienda e danno, assolvendo l’impresa da obblighi e sanzioni?
Il caso che ha fatto discutere
Tutto è iniziato con un incidente grave: un operaio appena assunto ha subito l’amputazione di una mano dopo essersi avvicinato da solo a una macchina troncatrice. Il giovane non era ancora stato formalmente assunto – il contratto sarebbe stato firmato proprio quel giorno – e non aveva ricevuto formazione specifica. Doveva solo passare materiali a un collega esperto, non toccare il macchinario.

L’azienda è finita in tribunale, ma il primo giudice ha assolto il datore di lavoro, ritenendo che l’azione del dipendente fosse talmente imprudente da non poter essere prevista, e quindi non imputabile all’impresa.
Tuttavia il Pubblico Ministero ha fatto ricorso e la Cassazione ha ribaltato la decisione. Secondo i giudici, non è sufficiente dire che il lavoratore è stato imprudente. La legge prevede che ogni azienda valuti in anticipo i rischi legati a mansioni e attrezzature, e formi in modo adeguato chiunque vi sia esposto. Se un dipendente, anche sbagliando, si muove comunque all’interno di ciò che è ragionevolmente previsto dal lavoro che gli è stato assegnato, l’azienda resta responsabile.
In sostanza, esiste una “zona grigia”, detta area di rischio, che l’azienda ha l’obbligo di tenere sotto controllo. Ed è in quella zona che può cadere anche un comportamento incauto, ma plausibile, del lavoratore. La Cassazione ha ricordato che non siamo più in un sistema in cui l’azienda è sempre colpevole, ma nemmeno in uno in cui può lavarsene le mani se il dipendente fa un errore.
Ma quando il datore di lavoro non è responsabile? Esistono infatti delle eccezioni. Se un lavoratore compie un’azione del tutto estranea alle sue mansioni – ad esempio, salire su un’impalcatura vietata per gioco o per iniziativa personale non richiesta – allora sì, il comportamento può essere considerato abnorme. In questi casi, il legame tra responsabilità del datore e danno si spezza, e l’impresa non può essere punita.
Nel caso della macchina troncatrice, però, il lavoratore si trovava comunque in un contesto coerente con il proprio incarico, e l’uso – seppur errato – del macchinario non era così assurdo da risultare totalmente imprevedibile. La lezione è chiara: la formazione del personale non è un dettaglio burocratico, ma un obbligo che può fare la differenza tra colpa e assoluzione. Non basta affiancare un neoassunto a un collega più esperto o sperare che “usi il buon senso”. Il datore deve informare, formare e prevenire, fin dal primo minuto.





