La regola dei cinque anni è solo una parte del quadro. Per proteggersi davvero da errori, contestazioni e richieste improvvise dell’Agenzia delle Entrate, la soluzione è una sola
Essere pronti a dimostrare di aver rispettato gli adempimenti fiscali è il cruccio di molti contribuenti che tendono a conservare tutto. Molti di essi sono convinti che la documentazione vada conservata per soli cinque anni. È una convinzione diffusa, alimentata dalla regola generale sui tempi a disposizione dell’Agenzia delle Entrate per aprire un accertamento. Ma questa idea, se presa alla lettera, può rivelarsi pericolosa: conservare troppo poco significa rischiare di ritrovarsi senza prove quando arriva un controllo e sarebbe proprio un’ingiustizia.
Prima di mettere mano agli scaffali e alleggerire i faldoni, è fondamentale chiarire un punto essenziale: il limite dei cinque anni riguarda la decadenza dell’accertamento, non la durata dell’obbligo di conservazione dei documenti. Le due cose non coincidono. Si tratta di una distinzione semplice ma decisiva, che spesso sfugge a chi non ha dimestichezza con la normativa.
Il contribuente, infatti, non deve conservare le carte soltanto per “attendere” il termine entro cui il Fisco può aprire un accertamento, ma per essere in grado di rispondere alle richieste dell’Amministrazione finanziaria durante tutta la durata di un’eventuale verifica. Ed è proprio qui che entra in gioco la regola dei dieci anni.
Perché cinque anni non bastano
La normativa fiscale stabilisce che l’Agenzia delle Entrate può contestare una dichiarazione entro cinque anni dall’anno successivo a quello in cui è stata presentata. È la famosa “finestra dei controlli”. Ma questo è solo il primo livello: se il controllo viene avviato entro quel termine, il contribuente è obbligato a fornire tutta la documentazione utile a giustificare ciò che ha dichiarato.

Ed è a questo punto che interviene il Codice Civile, imponendo un obbligo più lungo. L’articolo 2220 stabilisce infatti che i documenti contabili devono essere conservati per dieci anni. La norma è formulata soprattutto per imprese e professionisti, ma di fatto coinvolge anche i contribuenti privati, perché la logica è la stessa: senza documenti non si può dimostrare nulla.
Se il controllo fiscale parte entro i cinque anni, l’Agenzia può richiedere documenti riferiti anche a periodi più lontani, purché collegati alla verifica. In assenza di fatture, ricevute, dichiarazioni o certificazioni, il contribuente si troverebbe in una posizione debole. Le contestazioni del Fisco, infatti, partono da una presunzione di legittimità: spetta al contribuente dimostrare il contrario.
Senza documenti non si può provare nulla. E questo può tradursi in sanzioni, maggiori imposte da pagare, oppure in un contenzioso difficile da vincere. A chiarire definitivamente la questione interviene lo Statuto del Contribuente, che fissa a dieci anni il limite massimo entro cui il Fisco può pretendere di visionare la documentazione. Oltre questo periodo, nessuna richiesta è più legittima.
Per maggiore praticità e sicurezza è bene sapere che andrebbero conservati per almeno dieci anni: dichiarazioni dei redditi e allegati, fatture, ricevute e documenti di spesa detraibili, quietanze di pagamento, bonifici parlanti, certificazioni, documenti relativi a immobili o ristrutturazioni, corrispondenza con il Fisco e avvisi ricevuti.





