Secondo questa nuova sentenza rischi il licenziamento per giusta causa se ti rivolgi con questi toni al tuo capo.
Nel panorama giuridico del lavoro italiano, una recente sentenza della Corte di Cassazione ha posto un nuovo, rigoroso precedente riguardo alle conseguenze degli insulti rivolti ai propri superiori sul posto di lavoro. La pronuncia dell’ordinanza n. 21103 del 24 luglio 2025 ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di una psicologa che aveva offeso il proprio responsabile con un termine volgare e umiliante, dando così un segnale chiaro sull’importanza del rispetto gerarchico nelle relazioni lavorative.
Rispetto e gerarchia: il confine invalicabile nelle relazioni di lavoro
Il caso riguarda una psicologa impiegata in una struttura di assistenza per persone con disabilità, che durante una discussione riguardante la modifica del piano ferie, ha rivolto al proprio capo, davanti a una collega, l’insulto “leccaculo”. La Corte ha sottolineato come questo comportamento non sia solo una semplice mancanza di educazione, ma una vera e propria insubordinazione che mina irreparabilmente la fiducia tra datore di lavoro e lavoratore, un elemento essenziale per la prosecuzione del rapporto contrattuale. La sentenza chiarisce che, quando un dipendente utilizza un linguaggio offensivo nei confronti del superiore in modo pubblico e gratuito, non sussistono giustificazioni o attenuanti.
Non è necessario che l’episodio sia parte di una lite violenta o provocata da forti tensioni: anche un solo episodio può sufficiente per legittimare un licenziamento immediato, qualora superi i limiti del rispetto e della correttezza professionale. Un elemento aggravante è stato rappresentato dalla circostanza che l’offesa è stata pronunciata in presenza di una testimone, trasformando così l’insulto in un’umiliazione pubblica del superiore. La Corte ha inoltre evidenziato che la lavoratrice in questione aveva già ricevuto una sanzione disciplinare per un precedente episodio in cui aveva insultato il padre di un paziente.
Sebbene non si sia configurata una recidiva formale, questo fatto ha contribuito a delineare un quadro di “inclinazione all’insulto e all’ingiuria”, con una certa propensione a superare i limiti del linguaggio decoroso. In seguito al ricorso della lavoratrice, la Corte d’Appello aveva già confermato la legittimità del licenziamento, correggendo la decisione iniziale del Tribunale che aveva giudicato l’allontanamento dal lavoro eccessivo. Secondo i giudici d’appello, l’epiteto usato non era soltanto “di cattivo gusto”, ma risultava “volgare, pesante e ingiurioso”, con un impatto così grave da rendere impossibile il prosieguo del rapporto di lavoro.

Molti lavoratori sono convinti che per un licenziamento per giusta causa sia necessaria la reiterazione di condotte scorrette, ma la sentenza della Cassazione ribalta questo mito. Il principio stabilito è che anche un singolo episodio, se sufficientemente grave, può giustificare il licenziamento senza preavviso. La norma di riferimento è l’articolo 2119 del Codice Civile, che consente al datore di lavoro di interrompere immediatamente il rapporto contrattuale in presenza di un fatto che renda impossibile anche temporaneamente la prosecuzione del rapporto.
Nel caso in esame, l’insulto rivolto pubblicamente e in risposta a un ordine gerarchico costituisce una chiara forma di insubordinazione. Sebbene i contratti collettivi nazionali prevedano sanzioni disciplinari per “litigi, ingiurie e risse”, la Cassazione ha evidenziato che la gravità dell’insulto non è necessariamente data dalla sua frequenza, ma anche dalla modalità e dal contesto in cui viene espresso.
L’episodio si è verificato durante un confronto su una questione organizzativa rilevante come la modifica delle ferie, rendendo l’offesa un attacco diretto all’autorità del capo. Questo ha inequivocabilmente determinato la cessazione del rapporto di lavoro, confermando la necessità di mantenere un comportamento rispettoso e professionale in ogni situazione lavorativa.





