Le strade della politica sono spesso percorse da idee che sembrano voler cambiare regole consolidate, scuotendo certezze e aprendo scenari inattesi per molti cittadini. Ogni proposta che tocca diritti acquisiti porta con sé tensioni e domande, perché dietro le norme ci sono vite reali che dipendono da quelle garanzie.
Un emendamento alla legge di Bilancio potrebbe cancellare il diritto alla pensione di reversibilità per i partner superstiti delle unioni civili, sollevando forti polemiche. La proposta, firmata dal senatore leghista Claudio Borghi, rischia di scontrarsi con la Costituzione e con anni di giurisprudenza consolidata che hanno tutelato tali diritti.
Unioni civili: addio alla pensione di reversibilità
Tra le modifiche alla manovra finanziaria emerge infatti l’idea di negare la reversibilità alle unioni civili, suscitando un acceso dibattito politico e sociale. Borghi ha dichiarato apertamente che questo emendamento è tra quelli a cui tiene maggiormente, ribadendo la sua posizione con parole nette e inequivocabili.

Attualmente la pensione di reversibilità spetta anche alle unioni civili, alle stesse condizioni previste per i coniugi sposati, come stabilito dalla legge n. 76 del 2016. La piena equiparazione previdenziale è stata confermata dalla circolare Inps n. 5171 del 2016, che ha riconosciuto formalmente gli stessi diritti pensionistici ai partner.
La Corte di Cassazione ha ribadito che negare tale diritto violerebbe il principio costituzionale di uguaglianza, sancito dalla Carta fondamentale italiana. Il partner superstite di un’unione civile ha diritto a ricevere generalmente il 60% della pensione maturata dal compagno deceduto, secondo la legge n. 335 del 1995.
Per ottenere l’erogazione è necessario presentare domanda all’Inps, allegando documentazione che attesti sia l’unione civile sia il decesso del partner. Diversa è la situazione delle convivenze di fatto, regolate dalla legge Cirinnà ma prive di equiparazione al matrimonio, senza accesso alla reversibilità.
Un eventuale emendamento che cancelli la reversibilità per le unioni civili si scontrerebbe inevitabilmente con la Corte Costituzionale e i suoi precedenti. Già prima della legge Cirinnà, la Consulta aveva ribadito che le coppie omosessuali hanno diritto a una tutela equivalente a quella dei coniugi.
Tre sentenze, la n. 138 del 2010, la n. 170 del 2014 e la n. 221 del 2015, hanno chiarito l’impossibilità di uno status inferiore. Questi orientamenti hanno obbligato il legislatore a intervenire, portando all’approvazione della legge n. 76 del 2016 che ha formalizzato tali diritti.
La proposta di Borghi solleva dubbi di compatibilità costituzionale, poiché produrrebbe un trattamento discriminatorio contrario agli standard europei di parità. La legge Cirinnà non ha inventato nuovi diritti, ma ha tradotto in norme principi già affermati dalla giurisprudenza costituzionale consolidata.
Cancellare la reversibilità significherebbe creare disparità tra cittadini in condizioni analoghe, discriminando sulla base dell’orientamento sessuale. L’Unione Europea richiede agli Stati membri di garantire parità di trattamento per tutte le forme di unione riconosciute dall’ordinamento.





