La prescrizione è valida solo se contestata entro 60 giorni: ignorare l’intimazione blocca per sempre la possibilità di annullare il debito fiscale. Cosa c’è da sapere
Le cartelle esattoriali sono il motivo per cui alcune persone non dormono la notte. Allo stesso tempo c’è chi pensa che gli anni di silenzio che posticipano l’arrivo di una cartella esattoriale sia sinonimo di estinzione del debito. Ma è realmente così? L’idea comune è che basti attendere il passare del tempo perché l’obbligazione fiscale si estingua da sola. In realtà, le cose non funzionano così e l’errore può costare caro.
Questa parola, prescrizione, è tra le più fraintese nel contenzioso tributario. Ogni tributo ha tempi diversi entro cui lo Stato può chiedere il pagamento, ma il vero problema non sta nei termini, bensì nelle modalità con cui il contribuente deve far valere il proprio diritto. Molti si illudono che “ignorare” un’intimazione o un sollecito equivale a vedere sparire il debito. Ma ecco che una recente pronuncia della Corte di Cassazione dimostra invece l’esatto contrario.
Il principio che oggi viene confermato non può scaturire dubbi: anche se sono passati dieci, cinque o tre anni – a seconda della tipologia di tributo – la prescrizione non si applica automaticamente. Cosa significa? Deve essere eccepita, cioè dichiarata ufficialmente, nel momento giusto. Se il contribuente tace quando riceve un’intimazione di pagamento, quel silenzio viene interpretato dalla legge come un’accettazione del debito. E una volta consolidato, non può più essere contestato.
I termini di prescrizione: cosa sapere davvero
Ogni debito fiscale è soggetto a un limite di tempo entro cui l’Amministrazione può chiederne il pagamento. I più comuni sono:
– 10 anni per IRPEF, IVA, IRES, imposta di registro e di bollo;
– 5 anni per tributi locali (IMU, TARI), sanzioni amministrative, contributi INPS e INAIL;
– 3 anni per il bollo auto.

Superato il termine, il credito si considera estinto. Tuttavia, questa estinzione non scatta da sola: deve essere fatta valere attraverso un ricorso tempestivo contro l’atto con cui l’Ente di riscossione torna a chiedere il pagamento. Ed è proprio questo il punto chiarito dalla Cassazione.
L’intimazione di pagamento non è un semplice sollecito, ma un atto autonomo, impugnabile come una qualunque cartella. È il momento in cui il contribuente può e deve far valere la prescrizione. La finestra temporale è precisa: 60 giorni dalla notifica.
Se il destinatario non reagisce, la pretesa fiscale si “cristallizza”. Significa che, anche se la cartella originaria era prescritta, ormai non si può più contestare nulla. Qualsiasi successivo provvedimento – fermo amministrativo, pignoramento, ipoteca – arriva troppo tardi per recuperare la possibilità di difendersi.
C’è un caso recente che ha portato alla luce il chiarimento: la Corte è intervenuta dopo la vicenda di una contribuente che, anni dopo aver ricevuto una cartella, aveva impugnato solo un preavviso di fermo amministrativo. Sosteneva che il debito fosse prescritto perché tra la notifica della cartella e l’intimazione successiva erano trascorsi oltre dieci anni. Ma la Cassazione ha stabilito che la prescrizione andava eccepita quando arrivò l’intimazione, non dopo. Non avendolo fatto, il debito è diventato definitivo.
Ecco perché è bene fare attenzione a due cose fondamentali: se ritieni che il debito sia prescritto, devi agire subito, hai 60 giorni per presentare ricorso e far valere i tuoi diritti e ignorare l’atto significa perdere definitivamente la possibilità di far annullare la cartella.





