Una recente decisione della Corte d’Appello di Bari ridefinisce i confini tra mansioni superiori, promozione automatica e demansionamento, aprendo la strada a nuovi risarcimenti per i lavoratori.

Negli ultimi anni, in Italia, sempre più lavoratori hanno portato davanti ai giudici questioni legate alle mansioni lavorative e agli avanzamenti di carriera. Spesso, dietro queste cause, si nasconde una domanda fondamentale: se un dipendente svolge per lungo tempo compiti più complessi rispetto al proprio livello contrattuale, ha diritto a una promozione automatica o almeno a una retribuzione più alta?

Una recente sentenza della Corte d’Appello di Bari ha riacceso il dibattito. Il caso riguardava un dipendente di un consorzio di bonifica che, per un certo periodo, aveva svolto mansioni di livello superiore rispetto alla sua qualifica. Dopo anni di spostamenti, cambi di sede e un periodo di isolamento lavorativo, il lavoratore aveva chiesto un risarcimento per demansionamento e il riconoscimento del diritto a un inquadramento più alto.

I giudici pugliesi, con la sentenza n. 1674/2025, hanno stabilito un principio che può avere conseguenze importanti per migliaia di lavoratori italiani. Una decisione che, in certi casi, potrebbe tradursi in maxi risarcimenti a carico dei datori di lavoro.

Mansioni superiori: cosa significa davvero

Partiamo da un concetto chiave: nel nostro ordinamento, se un lavoratore viene assegnato a mansioni di livello superiore, ha diritto alla retribuzione corrispondente al lavoro effettivamente svolto. Questo principio è fissato dall’articolo 2103 del Codice Civile, che tutela i dipendenti da situazioni di sfruttamento o di sottovalutazione professionale.

sentenza risarcimento
Una sentenza ha stabilito il risarcimento del datore di lavoro nei confronti del dipendente – diritto-lavoro

Tuttavia, non sempre chi svolge compiti più impegnativi ottiene automaticamente la promozione. La legge e la giurisprudenza sono molto chiare: l’avanzamento di grado, chiamato anche “promozione automatica”, scatta solo se il lavoratore dimostra di aver svolto in modo continuativo, stabile e completo le mansioni di livello superiore — e non semplicemente per brevi periodi o per sostituire un collega.

La Corte di Bari, nella sua decisione, ha ribadito che per ottenere la promozione serve una piena assunzione delle responsabilità tipiche del ruolo superiore, nonché l’autonomia decisionale che ne deriva. In caso contrario, il dipendente ha diritto solo alle differenze retributive maturate durante il periodo in cui ha effettivamente svolto compiti di livello più alto, ma non al passaggio definitivo alla qualifica superiore.

Nel caso esaminato, il lavoratore aveva effettivamente ricevuto un risarcimento per il periodo in cui aveva svolto mansioni superiori. Tuttavia, quando era tornato al suo ruolo originario, i giudici non hanno riconosciuto un demansionamento, ma semplicemente la fine di un incarico temporaneo.

Questo chiarimento è determinante, perché mette un punto fermo in una materia spesso ambigua: non ogni variazione di compiti equivale a una violazione dei diritti del lavoratore. Tuttavia, se un’azienda declassa un dipendente, lo isola o gli affida compiti ben al di sotto della sua qualifica, allora sì, si configura un demansionamento illegittimo, e in questi casi il datore di lavoro può essere condannato a risarcire i danni morali ed economici.

La sentenza della Corte d’Appello di Bari diventa quindi un precedente utile: chi ritiene di essere stato ingiustamente escluso da mansioni coerenti con il proprio livello può far valere i propri diritti, ma deve dimostrare con prove concrete — documenti, email, ordini di servizio — di aver svolto per lungo tempo attività superiori.

La novità della sentenza sta nell’aver rafforzato un principio di equilibrio: ai lavoratori spetta sempre il giusto compenso per il lavoro effettivamente svolto, ma la promozione non è automatica. Allo stesso tempo, il datore di lavoro non può utilizzare la flessibilità organizzativa per “punire” o isolare i dipendenti.