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Tutele crescenti con patto di prova nullo, licenziamento illegittimo

Risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso

Tutele crescenti con patto di prova nullo, licenziamento illegittimo:

Anche per le assunzioni con il contratto a tutele crescenti, la previsione del patto di prova richiede estrema attenzione, poiché in caso di licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, se la clausola che lo prevede è affetta da vizi formali o sostanziali, l’effetto immediato sarà l’illegittimità del provvedimento espulsivo e quindi la reintegra nel posto di lavoro.

E per saperne di più in tema di periodo di prova nel contratto a tutele crescenti, riportiamo di seguito lo speciale pubblicato oggi (15.1.2018) dal Sole 24 Ore (Firma: D. Colombo; Titolo:  “Nelle tutele crescenti il patto di prova nullo apre alla reintegra” e “Bocciata la stipula successiva al contratto”).

Nelle tutele crescenti il patto di prova nullo apre alla reintegra

Licenziamento illegittimo con sanzioni differenziate

La redazione del patto di prova richiede molta attenzione, anche per le assunzioni con il contratto a tutele crescenti. Il licenziamento intimato al lavoratore assunto con questa tipologia contrattuale per mancato superamento del periodo di prova, la cui clausola sia nulla per vizi formali o sostanziali, infatti, in alcune delle prime pronunce dei giudici di merito, hanno dato spazio alla reintegrazione in servizio del lavoratore.
Il Dlgs 23/2015 che disciplina il contratto di lavoro a tutele crescenti non contiene alcun chiarimento su questo tema. Le prime decisioni di merito dei giudici si sono orientate verso l’applicazione dell’articolo 3, comma 2 del Dlgs 23/2015, che prevede, esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, che il giudice annulli il licenziamento e condanni il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore. Inoltre, il datore deve versare al lavoratore un’indennità risarcitoria fino a un massimo di 12 mensilità. A questo fine, in giudizio dovrà essere dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, senza alcuna valutazione sulla proporzionalità della sanzione espulsiva. La norma, quindi, si riferisce inequivocabilmente solo alle fattispecie di licenziamento per motivi soggettivi.
Secondo parte della giurisprudenza, tuttavia, anche l’invalidità del patto di prova per carenza di forma e di sostanza darebbe luogo alla condanna del datore di lavoro alla reintegrazione in servizio del dipendente in quanto il licenziamento, in questo caso, poiché fondato su una ragione inesistente, sarebbe ingiustificato in base all’articolo 1 della legge 604/1966 ( si vedano le sentenze del Tribunale di Milano, sezione lavoro, 2912 del 3 novembre 2016 e del Tribunale di Torino, sezione lavoro, 1501 del 16 settembre 2016). L’accertata inesistenza delle ragioni poste alla base della motivazione del recesso, comporta, secondo questa interpretazione, l’insussistenza del fatto materiale.
Un’altra sezione del Tribunale di Milano, invece, in un giudizio avente a oggetto il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova di una lavoratrice disabile assunta con il contratto a tutele crescenti, è arrivata invece a conclusioni diverse, affermando l’inapplicabilità delle disposizioni previste dall’articolo 3, comma 2, della legge 23/2015.
Dopo aver accertato la nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro il giudice ha ritenuto applicabile l’articolo 3, comma 1, che sanziona con la sola indennità economica l’illegittimità del recesso datoriale: nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro a versare un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a 24 mensilità.
Secondo questo orientamento, la tutela reintegratoria prevista in caso di insussistenza del fatto materiale (articolo 3, comma 2) è applicabile ai soli licenziamenti disciplinari (Tribunale di Milano, sezione lavoro, sentenza 730 dell’8 aprile 2017, giudice Bertoli).
Vedremo come si consoliderà la giurisprudenza, anche alla luce, da una parte, del tenore letterale della norma e, dall’altra, della ratio del Jobs Act, che è quella di rendere eccezionale e sporadica la sanzione della reintegrazione.

LE PRONUNCE 

1. IL RECESSO E’ ILLEGITTIMO ANCHE CON PROVA SUPERATA: 
Il patto di prova fa sorgere a favore del datore di lavoro un potere di recesso che non richiede motivazione. La valutazione del datore di lavoro è discrezionale e la prova da parte del dipendente dell’esito positivo del periodo di prova non basta per sostenere l’illegittimità del recesso, poiché è necessario dimostrare che il licenziamento sia stato provocato da motivi diversi.
Cassazione, sezione lavoro, sentenza 1180 del 18 gennaio 2017
2. LE MANSIONI VANNO INDICATE IN MODO SPECIFICO
Per poter valutare l’esito del periodo di prova, è necessario dare rilevanza alle mansioni espressamente individuate nel patto di prova inserito nel contratto. Il patto di prova apposto al contratto di lavoro, quindi, deve non solo risultare da un atto scritto, ma contenere anche l’indicazione specifica delle mansioni da espletare.
La facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria insindacabile valutazione sull’esito della prova presuppone che questa debba essere effettuata per mansioni esattamente identificate e indicate.
Cassazione, sezione lavoro, sentenze 10618 del 22 maggio 2015 e 5509 del 19 marzo 2015
3. RECESSO INGIUSTIFICATO SENZA IL PATTO PER ISCRITTO
L’invalidità del patto di prova per carenza di forma scritta comporta l’ingiustificatezza del licenziamento ex articolo 1 della legge 604/1966 perché fondato su una ragione inesistente. Dall’accertata inesistenza di motivazione del recesso intimato consegue l’insussistenza del fatto materiale contestato e da ciò discende, in base all’articolo 3, comma 2 del Dlgs 23/2015, la condanna del datore a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a versare l’indennità risarcitoria.
Tribunale di Torino, sezione lavoro, sentenza 1501 del 16 settembre 2016; Tribunale di Milano, sezione lavoro, sentenza 2912 del 3 novembre 2016
4. IL MANCATO SUPERAMENTO NON HA RILIEVO DISCIPLINARE:
Accertata la nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro, il giudice ritiene applicabile l’articolo 3, comma 1 del Dlgs 23/2015 che sanziona con la sola indennità economica l’illegittimità del recesso datoriale. Non può applicarsi, infatti, la tutela reintegratoria prevista in caso di insussistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento (articolo 3, comma 2 del Dlgs 23/2015) posto che, in base alla lettera della norma, essa si applica solo ai licenziamenti disciplinari, mentre il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova non presuppone né implica (anche solo di fatto), una condotta disciplinarmente rilevante.
Tribunale di Milano, sezione lavoro, sentenza 730 dell’8 aprile 2017
5. IL PATTO E’ ILLEGITTIMO SE LA VERIFICA E’ GIA’ AVVENUTA
Nel lavoro subordinato, il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentare la convenienza del rapporto. Il patto è illegittimamente stipulato, dunque, se questa verifica è già intervenuta, con esito positivo, per le stesse mansioni, ancorché diversamente denominate, e per un congruo lasso di tempo, a favore dello stesso datore di lavoro o di un precedente datore di lavoro-appaltatore, titolare dello stesso appalto.
Cassazione, sezione lavoro, sentenza 17371 del 1° settembre 2015

I requisiti. Gli elementi necessari perché le clausole siano corrette

Bocciata la stipula successiva al contratto

Quali sono gli elementi che devono essere rispettati perché il patto di prova sia valido? In linea generale, la clausola che prevede lo svolgimento di un periodo di prova è apposta per lo più a favore del datore di lavoro, perché consente di “testare” le effettive capacità e competenze del dipendente nell’affrontare le mansioni per le quali è stato assunto. Inoltre, durante il periodo di prova, le parti possono interrompere il rapporto senza obbligo di motivazione (si veda la sentenza della Cassazione, sezione lavoro, 1180 del 17 gennaio 2017).
Il licenziamento per mancato superamento del periodo prova, invero, non obbliga il datore di lavoro a motivare il recesso ovvero a rispettare il preavviso e/o a pagare la relativa indennità sostitutiva prevista dalla contrattazione collettiva, essendo le parti libere di recedere.
I vincoli da considerare
La prova non può avere una durata superiore a sei mesi o al diverso periodo previsto dalla contrattazione collettiva. Il patto può essere apposto sia in un contratto a tempo indeterminato sia in un contratto a tempo determinato, così come in un contratto di apprendistato. Il patto di prova costituisce un elemento accidentale del contratto, che non sussiste né può produrre effetto se non espressamente previsto dalle parti nel contratto individuale.
Il primo requisito di validità del patto di prova è la forma scritta, in mancanza della quale è prevista la nullità del patto stesso (articolo 2096 del Codice civile).
Il patto deve essere stipulato anteriormente o contestualmente al contratto di lavoro. L’eventuale patto di prova stipulato successivamente alla conclusione del contratto di lavoro è nullo. Allo stesso modo, la ripetizione del patto di prova in due successivi contratti di lavoro tra le stesse parti non è ammissibile, rendendo invalido il secondo patto di prova apposto al contratto.
Questa seconda clausola, tuttavia, è valida se consente all’imprenditore di verificare le qualità professionali del lavoratore in relazione all’esecuzione di nuove e diverse mansioni rispetto a quelle precedentemente espletate in forza di un diverso contratto di lavoro (Cassazione, sentenza 17371 del 1° settembre 2015).
L’indicazione delle mansioni
Il patto di prova deve contenere l’indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto. Soprattutto quando si tratta di un lavoro intellettuale e non meramente esecutivo, queste non devono necessariamente essere indicate nel dettaglio, essendo sufficiente che, in base alla formula adoperata nel documento contrattuale, siano determinabili (Cassazione, sezione lavoro, sentenze 10618 del 22 maggio 2015 e 5509 del 19 marzo 2015).
La giurisprudenza ha ritenuto sufficiente a integrare il requisito della specificità, ad esempio, il riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva, quanto meno ove il richiamo sia fatto alla nozione più dettagliata (così Cassazione, sentenza 17045 del 19 agosto 2005) e sempre che il rinvio sia sufficientemente specifico (Cassazione, sentenza 11722 del 20 maggio 2009; sentenza 13455 del 9 giugno 2006).
In questo senso, ad esempio, la dizione «analyst consultant» utilizzata in un contratto individuale potrebbe non essere di contenuto specifico, soprattutto in assenza di indicazioni ulteriori sull’area di operatività del lavoratore. La stessa espressione, poi, potrebbe rivelarsi poco pregnante soprattutto se non corrisponde ad alcuno dei profili professionali contemplati dal Ccnl applicabile (Tribunale di Milano, sentenza 730 dell’8 aprile 2017).

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