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Mobbing e annullamento dimissioni per incapacità

Pubblico impiego

Mobbing e annullamento dimissioni per incapacità:

Sul mobbing e annullamento dimissioni per incapacità riportiamo la sentenza n. 87/2012 della Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione. 

La sentenza n. 87/2012 ha confermato, secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, che per mobbingsi intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.”

 

Inoltre la Suprema Corte sulla sussistenza della condotta lesiva ha precisato che: “la sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – sulla base di una valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. L’apprezzamento circa la sussistenza, in concreto, degli estremi del mobbing, secondo i parametri sopra delineati, costituisce una valutazione di merito che, ove basata su motivazione adeguata e priva di vizi logici, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 29 settembre 2005 n. 19053, in motivazione)“.

Infine per quanto concerne l’aspetto delle dimissioni e l’annullabilità delle stesse per incapacità naturale del lavoratore e, in adesione a Cass. 1 settembre 2011 n. 17977, la Suprema Corte ha precisato che, “se è vero che, ai fini della sussistenza della incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio di dimissioni, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, è anche vero che la suddetta menomazione deve essere comunque tate da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’atto che sta per compiere“. E che “la valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in cassazione se adeguatamente motivata, dovendo l’eventuale vizio della motivazione emergere, in ogni caso, direttamente dalla sentenza e non dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità“.

Sinteticamente la vicenda che ha occupato la Suprema Corte, riguardava il ricorso proposto da un lavoratore il quale chiedeva l’annullamento delle sue dimissioni con conseguenziale reintegra nel posto di lavoro, oltre al risarcimento dei danni: per mobbing e per dequalificazione. Secondo il giudizio della Corte di Appello nelle dimissioni non sussisteva sul punto, contrariamente a quanto assunto dal lavoratore ricorrente, vizio di incapacità. Infatti il lavoratore, su cui gravava l’onere probatorio, non aveva fornito la prova di tale incapacità. Questi inoltre non aveva neppure fornito la prova dell’asserito demansionamento e dei conseguenti danni (neppure quantificati dal ricorrente). Infine la Corte di Appello non riteneva neppure provato il mobbing nei confronti del lavoratore ricorrente.

Tale ricorso veniva rigettato dalla Corte di Appello. Il lavoratore si rivolgeva quindi alla Corte Suprema sul presupposto che la Corte di Appello non aveva valutato adeguatamente tutte le vicede legate al rapporto di lavoro e che, a suo dire, dimostravano sicuramente la sussistenza di comportamenti posti in essere dal datore di lavoro nei suoi confronti aventi carattere mobbizzante.

La Corte di Cassazione quindi ha ritenuto, per le ragioni di cui sopra, infondati i motivi addotti dal lavoratore sulla sussistenza del mobbing. Infatti a detta della Corte, i Giudici di merito “avevano correttamente ritenuto che nel caso di specie, nel quale peraltro non viene contestata alcuna violazione di legge, la Corte territoriale ha motivato in modo sintetico ma sostanzialmente completo sulle ragioni per le quali ha escluso la sussistenza degli estremi del mobbing e tale motivazione appare coerente con i principi sopra enunciati. Ha osservato in particolare che la vicenda lavorativa del … si era sviluppata nei limiti della normalità atteso che il rapporto di lavoro si era svolto secondo modalità congrue rispetto alla natura delle prestazioni, alle obbligazioni reciproche ed agli interessi delle parti contrattuali. Ha sottolineato inoltre, da un lato, che non poteva ravvisarsi, nel caso di specie, un nesso causale fra la patologia psichica da cui era risultato affetto il lavoratore ed il disagio derivante dall’ambiente lavorativo, e, dall’altro, che non era nemmeno possibile individuare i soggetti responsabili dell’allegato mobbing con riferimento a comportamenti specifici e rilevanti. Le contrarie argomentazioni svolte dal ricorrente si basano, in buona sostanza, sulla richiesta di nuova valutazione delle circostanze sottoposte alla valutazione del giudice di merito (in particolare, trasferimento in una agenzia caratterizzata da un notevole carico di lavoro, presso la quale il ricorrente era stato vittima di una rapina; irrogazione di una sanzione disciplinare; dequalificazione professionale negli ultimi mesi del rapporto; mancato riconoscimento del premio di fedeltà) e di riesame delle risultanze istruttorie, richiesta inammissibile in questa sede di legittimità. Deve ricordarsi in proposito che, secondo il costante orientamento di questa corte (cfr., ad esempio, Cass. 25 ottobre 2003 n. 16063), per la configurabilità dei vizio di motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi dallo stesso vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed in genere dalle parti.”

Inoltre, come sopra si diceva, l’altra doglianza sollevata nel ricorso per cassazione dal lavoratore ricorrente riguardava la questione dell’annullamento delle sue dimissioni perchè viziate da incapacità. Ad avviso della Suprema Corte tale vizio non era riscontrabile poichè, “ai fini della sussistenza della incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio di dimissioni, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, è anche vero che la suddetta menomazione deve essere comunque tate da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’atto che sta per compiere“. E che “la valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in cassazione se adeguatamente motivata, dovendo l’eventuale vizio della motivazione emergere, in ogni caso, direttamente dalla sentenza e non dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità“.

Alla stregua di tali principi quindi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore.

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