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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1886 del 2020 e con la sentenza n. 1887 del 2020, ha chiarito una delle più delicate questioni relative all’intervento del Fondo di garanzia INPS per il pagamento del TFR e/o delle ultime mensilità retributive nel caso in cui il datore di lavoro sia insolvente.

In particolare, con la sentenza n. 1886/2020 viene affrontata l’ipotesi della richiesta di accesso al Fondo di garanzia INPS nel caso in cui il datore di lavoro sia sottoposto a procedure concorsuali, mentre con la sentenza n. 1887/2020 il caso in cui le garanzie patrimoniali del datore di lavoro risultino totalmente o parzialmente insufficienti.

La verifica del credito del lavoratore, sul quale poi potrà richiedersi il pagamento da parte dell’INPS e il successivo intervento dell’ente in surroga, può avvenire – come è noto – o in via ordinaria o mediante l’insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro (art. 2, commi 2 e seguenti, L.n. 297/1982) oppure, nel caso in cui il  datore di lavoro non sia soggetto alle procedure concorsuali, mediante il previo esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito che deve essere incorporato in un titolo – da cui risulti l’insufficienza totale o parziale delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro (art. 2, co. 5, della L.n. 297/1982).

Vediamole nel dettaglio.

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La sentenza 1886/2020 riguardava i seguenti fatti di causa:

Con sentenza depositata il 16.6.2017, la Corte d’appello di Palermo, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di (OMISSIS) volta ad ottenere dall’INPS, quale gestore del Fondo di garanzia, il pagamento del TFR maturato alle dipendenze di (OMISSIS) s.r.l.

La Corte, in particolare, ha ritenuto che, nell’ipotesi di chiusura del fallimento per insufficienza dell’attivo che fosse intervenuta senza previa formazione dello stato passivo, era onere del lavoratore che chiedesse l’intervento del Fondo di garanzia di procurarsi un titolo esecutivo nei confronti del datore di lavoro e di esperire preventivamente un qualche tentativo di esecuzione forzata, di talché, non essendosi l’appellato attivato in tal senso, nessuna pretesa poteva vantare nei riguardi dell’INPS.

Avverso tale provvedimento ricorreva per cassazione il lavoratore sul presupposto della violazione e falsa applicazione della L. n. 297 del 1982, articolo 2, comma 5, in relazione alla L. Fall., articolo 102 e articolo 118, comma 1, n. 4, per avere la Corte di merito ritenuto che, nell’ipotesi di chiusura del fallimento per insufficienza dell’attivo e senza previa formazione dello stato passivo, fosse suo onere di procurarsi un titolo esecutivo nei confronti del suo datore di lavoro ed esperire infruttuosamente l’esecuzione forzata per poter fondatamente rivendicare l’intervento del Fondo di garanzia: a suo avviso, infatti, dalla natura di prestazione previdenziale propria dell’erogazione a carico del Fondo e dalla modifica apportata alla L. Fall., articolo 118, comma 1, n. 4, dal Decreto Legislativo n. 5 del 2006, articolo 108, comma 1, lettera c), (che ha reso meramente eventuale la formazione dello stato passivo, prevedendo la chiusura del fallimento “quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, ne’ i crediti prededucibili e le spese di procedura”) discenderebbe la possibilità di far valere il proprio diritto direttamente nei confronti del Fondo di garanzia gestito dall’INPS, tanto più che l’imminente cancellazione della società dal registro delle imprese (prevista dalla L. Fall., articolo 118, comma 2, quale conseguenza della chiusura del fallimento per previsione di insufficiente realizzo) avrebbe reso inutile e inutilmente dispendiosa un’azione promossa nei suoi confronti.

Ad avviso della Cassazione tale motivo è infondato per i seguenti motivi.

In caso di insolvenza del datore di lavoro, il lavoratore assicurato che pretenda il pagamento del TFR da parte del Fondo di garanzia istituito presso l’INPS, ai sensi della L. n. 297 del 1982, articolo 2 ha l’onere di dimostrare che è stata emessa la sentenza dichiarativa del fallimento e che il suo credito è stato ammesso nello stato passivo, ovvero, qualora l’ammissione del credito nello stato passivo sia stata resa impossibile dalla chiusura della procedura per insufficienza dell’attivo intervenuta dopo la proposizione, da parte sua, della domanda di insinuazione, ma prima dell’udienza fissata per l’esame della domanda suddetta, di procedere preventivamente ad esecuzione forzata nei confronti del datore di lavoro tornato in bonis a seguito della chiusura del fallimento, L. n. 297 del 1982, ex articolo 2, comma 5, cit. (Cass. nn. 11945 e 13305 del 2007).

I suesposti principi sono stati ribaditi anche nell’ipotesi in cui l’esame della domanda (tardiva) di insinuazione sia stata impedita dalla previa chiusura del fallimento per insufficienza di attivo (Cass. n. 7877 del 2015) e poggiano sull’esame complessivo della disposizione di cui alla L. n. 297 del 1982, articolo 2 da cui emerge chiaramente che il legislatore ha ancorato l’intervento del Fondo alla ricorrenza di due distinte ed alternative ipotesi: da un lato, la verifica del credito del lavoratore mediante l’insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro (articolo 2, commi 2 ss.); dall’altro lato, qualora il datore di lavoro non sia soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il previo esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito, da cui risulti l’insufficienza, totale o parziale, delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro stesso (articolo 2, comma 5).

Così ricostruito il sistema, del tutto correttamente la Corte di merito ha ritenuto che la previsione della L. n. 297 del 1982, articolo 2, comma 5, dovesse trovare applicazione anche nel caso di specie, in cui il giudice fallimentare, essendo emerso che non poteva essere acquisito attivo alcuno da distribuire ai creditori, ha disposto con decreto la chiusura del fallimento del datore di lavoro dell’odierno ricorrente prima ancora dell’udienza fissata per l’esame dello stato passivo: è sufficiente al riguardo rilevare che, comportando la chiusura del fallimento il ritorno del datore di lavoro in bonis, ben poteva l’odierno ricorrente procurarsi un titolo esecutivo e promuovere la conseguente azione esecutiva nei confronti della società, ovvero, a seguito della sua cancellazione, nei confronti dei soci, i quali avrebbero risposto dei debiti sociali nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione (così Cass. S.U. n. 6070 del 2013).

Si deve piuttosto aggiungere che, in casi del genere, il previo esperimento di un’azione volta a conseguire un titolo esecutivo nei confronti del datore di lavoro insolvente, lungi dal costituire un onere inutile e inutilmente dispendioso, siccome paventato da parte ricorrente, costituisce piuttosto un presupposto non solo letteralmente, ma anche logicamente necessario, giacche’, da un punto di vista sistematico, l’accertamento giurisdizionale della misura del TFR dovuto in esito all’ammissione allo stato passivo ovvero la sua consacrazione in un titolo esecutivo conseguito nei confronti del datore di lavoro rappresentano la modalità necessaria per l’individuazione della misura stessa dell’intervento solidaristico del Fondo di garanzia, essendo l’ente previdenziale terzo rispetto al rapporto di lavoro inter partes ed essendo nondimeno la sua obbligazione modulata sul TFR maturato in costanza di rapporto di lavoro. Di talché l’ipotesi qui in esame rimane affatto estranea a quelle esaminate da Cass. nn. 8529 del 2012, 11379 del 2008, 9108 del 2007 e 14447 del 2004, pur richiamate nel ricorso per cassazione a sostegno della tesi patrocinata da parte ricorrente, perché ciò che in quei casi è stato escluso, in dipendenza delle peculiarità dei casi di specie, è la necessità del preventivo esperimento di un’azione esecutiva di volta in volta mobiliare o immobiliare, non anche la necessità che il lavoratore assicurato si munisse di un titolo esecutivo nei confronti del proprio datore di lavoro.

Segue da quanto sopra che nessun dubbio di legittimità costituzionale della disposizione di cui al comma 5 può sorgere rispetto a quella di cui alla L. n. 297 del 1982, articolo 2, comma 2 giacché entrambi i casi postulano che il diritto al TFR sia stato positivamente accertato nei confronti del suo legittimo debitore, vale a dire il datore di lavoro: e ciò o mediante la verifica dei crediti disposta nel corso dell’accertamento dello stato passivo fallimentare ovvero attraverso la sua consacrazione in un titolo utilmente eseguibile nei confronti del datore di lavoro stesso.

Il ricorso veniva per tali motivi rigettato.

La sentenza 1887/2020 riguardava, invece, i seguenti fatti di causa:

Con sentenza depositata il 12.12.2017, la Corte d’appello di Bologna, in riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato l’INPS, quale gestore del Fondo di garanzia, a corrispondere a (OMISSIS) il TFR maturato per il rapporto di lavoro alle dipendenze di (OMISSIS) s.r.l..

La Corte, in particolare, ha ritenuto che l’accertamento dell’assoggettabilità a fallimento di un imprenditore commerciale potesse essere effettuato, ai fini dell’intervento del Fondo di garanzia, anche al di fuori della competente sede fallimentare e che, ai fini dell’obbligo del Fondo di corrispondere il TFR, non fosse in specie necessaria né la preventiva formazione di un titolo esecutivo nei confronti del datore di lavoro né il previo esperimento di una qualche procedura esecutiva, da ritenersi superflui in ragione della sopraggiunta cancellazione della società dal registro delle imprese senza che risultasse alcuna distribuzione di somme ai soci.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’INPS affidandolo a due motivi.

Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 297 del 1982, articolo 2, commi 2 e 5, L. Fall., articolo 1, comma 2, articolo 15, comma 4, e articolo 22, e Decreto Legislativo n. 169 del 2007, articolo 1, anche in relazione all’articolo 2697 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto che l’accertamento della non assoggettabilità a fallimento di un imprenditore commerciale potesse essere effettuato, ai fini dell’intervento del Fondo di garanzia, anche al di fuori della competente sede fallimentare.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 297 del 1982, articolo 2, commi 1 e 5, anche in relazione all’articolo 410 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto possibile l’intervento del Fondo di garanzia anche in assenza della preventiva formazione di un titolo esecutivo nei confronti del datore di lavoro e del previo esperimento di una qualche procedura esecutiva, considerati superflui in ragione della sopraggiunta cancellazione della società dal registro delle imprese senza che risultasse alcuna distribuzione di somme ai soci.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il primo motivo.

Il secondo motivo è stato invece ritenuto fondato dalla Corte Suprema per i seguenti motivi.

La Corte territoriale ha ritenuto sul punto l’inutilità del previo esperimento di una qualsiasi procedura esecutiva (e, prima ancora, ancorché implicitamente, l’inutilità che l’odierna controricorrente si munisse di un titolo esecutivo nei confronti della propria datrice di lavoro) sul presupposto che “la società, a brevissima distanza dalla cessazione del rapporto di lavoro, è stata – in data 14/11/2012 – cancellata dal registro delle imprese senza che risulti la distribuzione di somme ai soci e senza che risulti nel breve arco di tempo dalla fine del rapporto di lavoro (30/5/2012) e detta cancellazione la concreta possibilità da parte della lavoratrice di intraprendere procedure esecutive ragionevolmente non aleatorie ne’ infruttuose” (così la sentenza impugnata, pag. 7); di conseguenza, dato atto dell'”inutile esperimento del tentativo di conciliazione” nei confronti della datrice di lavoro (ibid.) e della mancata contestazione da parte dell’INPS dell’an e del quantum del credito per TFR, ha condannato l’Istituto al pagamento della corrispondente prestazione previdenziale.

Sennonché, indipendentemente dalla questione, logicamente successiva, della necessità o meno dell’esperimento di una procedura esecutiva (circa la quale valga comunque qui richiamare il principio di diritto statuito da Cass. n. 17593 del 2016 e succ. conf.), va rimarcato che nel sistema delineato dalla L. n. 297 del 1982, articolo 2, il previo conseguimento di un titolo esecutivo nei confronti del datore di lavoro insolvente costituisce un presupposto non solo letteralmente, ma anche logicamente necessario, giacche’ l’accertamento giurisdizionale della misura del TFR dovuto in esito all’ammissione allo stato passivo ovvero la sua consacrazione in un titolo esecutivo conseguito nei confronti del datore di lavoro rappresentano la modalità necessaria per l’individuazione della misura stessa dell’intervento solidaristico del Fondo di garanzia, essendo l’ente previdenziale terzo rispetto al rapporto di lavoro inter partes ed essendo nondimeno la sua obbligazione modulata sul TFR maturato in costanza di rapporto di lavoro. Proprio per ciò, nessun rilievo può avere in casi del genere un’eventuale non contestazione da parte dell’INPS dell’an e del quantum del TFR dovuto al lavoratore, non esistendo in generale alcun onere di contestazione di fatti che siano ignoti alla parte (così, da ult., Cass. n. 87 del 2019).

Si aggiunga che contrari argomenti non possono trarsi da Cass. nn. 11379 del 2008, 9108 del 2007 e 14447 del 2004, che pure si menzionano nella sentenza impugnata a sostegno della tesi qui oggetto di censura: ciò che in quei casi è stato escluso, in dipendenza delle loro peculiarità, è la necessità del preventivo esperimento di un’azione esecutiva di volta in volta mobiliare o immobiliare, non anche la necessità che il lavoratore assicurato si munisca di un titolo esecutivo nei confronti del proprio datore di lavoro.

In conclusione, dunque, l’intervento del Fondo di garanzia ha carattere solidaristico e presuppone che l’INPS eroghi una prestazione in caso di insolvenza del datore di lavoro, con requisiti e con modalità autonome, ma pur comunque modellata, quanto all’importo, su quanto accertato come dovuto in via giudiziale. E se, in alcune ipotesi, la giurisprudenza, ma anche l’INPS, escludono il ricorso alle procedure esecutive per la dimostrazione dell’insufficienza delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro, tali circostanze presuppongono in ogni caso il possesso di un titolo esecutivo e l’accertamento del credito del lavoratore effettuato in via giudiziale.

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