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La Corte Suprema di Cassazione, con la Sentenza n. 18410 del 2019, ha reso un importante principio in tema di licenziamento disciplinare, e cioè criticare il datore di lavoro è legittimo se si rispettano i requisiti della verità e della correttezza.

Estratto dalla pagina a cura di Marcello Floris per Il Sole 24 Ore (per il testo integrale clicca qui).

Il diritto di critica del lavoratore nei confronti dell’azienda per la quale è impiegato ha dei limiti, violando i quali si può rischiare il licenziamento per giusta causa. In generale, l’orientamento della giurisprudenza ritiene che l’esercizio di questo diritto da parte del lavoratore riguardo alle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dall’articolo 21 della Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (articolo 2 della Costituzione), di tutela della persona umana. La Cassazione è tornata a esprimersi sui confini del diritto di critica del lavoratore nella sentenza 18410 del 9 luglio: la Corte ha stabilito, in questo caso, che non è legittimamente licenziabile la lavoratrice affetta da allergia se ha denunciato il datore di lavoro, colpevole di non aver rispettato le cautele imposte dal giudice per evitarle questo problema di salute.

Le contestazioni alla lavoratrice

Alla lavoratrice l’azienda aveva contestato di aver presentato una denuncia nei confronti del legale rappresentante del datore di lavoro, al quale addebitava l’omessa attuazione di una ordinanza cautelare emessa in un procedimento d’urgenza, in cui era stata giudicata illegittima l’assegnazione della lavoratrice in via continuativa a mansioni di pulizia. Era stata quindi ordinata alla società una determinata turnazione con preavviso e il divieto di uso di prodotti chimici ai quali la lavoratrice era allergica. La società aveva però ritenuto calunnioso il contenuto della denuncia, perché la lavoratrice avrebbe prospettato una dolosa inosservanza dell’ordinanza, nella consapevolezza dell’ infondatezza delle accuse, poiché la società non sarebbe stata a conoscenza del provvedimento del giudice e dunque avrebbe senza dolo adibito la lavoratrice alle mansioni, con modalità già ritenute pregiudizievoli nell’ordinanza cautelare.

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Il giudizio contro il datore di lavoro

Nel giudizio è emerso che la società era pienamente a conoscenza dell’ordinanza cautelare, avendo presentato reclamo contro di essa. Dunque la lavoratrice, in buona fede aveva ritenuto che il datore avesse consapevolmente contravvenuto alle disposizioni del giudice. Quanto deciso nel precedente grado di giudizio e confermato dalla Cassazione si fonda sull’accertamento in fatto secondo il quale, quando la lavoratrice ha sporto denuncia, non ha mosso un’accusa nella consapevolezza della sua infondatezza. Il provvedimento cautelare conteneva infatti precise prescrizioni, tra cui la limitazione temporale per l’assegnazione della lavoratrice alle mansioni di pulizia, una cadenza periodica, la necessità di preavviso, il divieto di utilizzo di determinati prodotti chimici e l’obbligo di mascherine protettive. Il datore di lavoro non è riuscito a dimostrare di essersi conformato a questi ordini. Da ciò deriva l’insussistenza dell’addebito posto a fondamento della contestazione disciplinare: l’aver la dipendente sporto denuncia con la consapevolezza della infondatezza dell’accusa.

Il diritto di critica del datore di lavoro

In questo caso, il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro è stato esercitato con il mezzo particolarmente aggressivo della denuncia.

Se la critica esercitata dal lavoratore supera i limiti della correttezza formale e di tutela della persona umana, attribuendo all’impresa o ai suoi rappresentanti qualità disonorevoli, riferimenti volgari e infamanti e deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, anche in mancanza degli elementi soggettivi e oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.

In altri termini, l’esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che superano i limiti del rispetto della verità oggettiva e si traducono in una condotta lesiva del decoro dell’impresa, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere che scaturisce dall’articolo 2105 del Codice civile e può costituire giusta causa di licenziamento.

Nel caso esaminato dalla sentenza del 9 luglio, si può sostenere che i limiti sopra indicati non siano stati travalicati e che il diritto di critica sia stato lecitamente esercitato dalla lavoratrice nel rispetto dei parametri posti dalla giurisprudenza.

La contestazione non deve mai ledere la dignità personale

La veridicità degli eventi può essere anche quella soggettiva per l’addetto

Secondo la giurisprudenza, l’esercizio del diritto di critica del datore, costituzionalmente tutelato, incontra, nel rapporto di lavoro, limiti non dissimili da quelli previsti in generale per la manifestazione del pensiero: quello della continenza formale, relativo al modo di esposizione del pensiero critico, e quello della continenza sostanziale, attinente la veridicità, pur valutata secondo il parametro soggettivo della verità percepita dall’autore, dei fatti denunciati.

La libera manifestazione del pensiero

Quel che rileva, infatti, è l’esposizione veritiera e corretta di un fatto nell’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, sia dal punto di vista sostanziale, sia formale. I fatti narrati devono corrispondere a verità, sia pure non assoluta ma soggettiva e, inoltre, l’esposizione deve avvenire in modo misurato, cioè deve essere contenuta negli spazi strettamente necessari all’esercizio del diritto di critica. Tali limiti debbono essere valutati con particolare rigore laddove la critica sia avanzata nell’ambito di una azione sindacale.

La sanzione prevista per il lavoratore che supera i limiti

La sanzione per il lavoratore che ha travalicato i limiti del diritto di critica, è, nella maggior parte dei casi, il licenziamento per giusta causa. È molto ampio, però, il margine di discrezionalità lasciato ai giudici nel valutare i modi in cui può essere esercitato questo diritto.

Ad esempio, una corte territoriale ha ritenuto fondata la contestazione mossa al dipendente relativa al contenuto, non veritiero e lesivo dell’immagine della banca, di due articoli redatti in materia di welfare aziendale. Il limite era stato ritenuto superato poiché il lavoratore aveva divulgato dati non provandone l’effettiva falsità e affidando i propri scritti a un blog e a un account di posta elettronica ad altissima diffusione (Cassazione, sentenza 10897 del 7 maggio 2018).

Le decisioni della Cassazione

In un’altra occasione, invece, la Corte d’appello aveva ritenuto che il messaggio di testo, inviato al di fuori della prestazione lavorativa dalla dipendente tramite WhatsApp non presentasse caratteri di gravità tali da legittimare la sanzione espulsiva. I giudici hanno considerato infatti che il messaggio si ponesse «sul piano della manifestazione della libertà di pensiero e dell’esercizio del diritto di critica», rispettoso sia della continenza sostanziale, sia della continenza formale, tenuto altresì conto del tipo di linguaggio normalmente utilizzato in tali forme di comunicazione (Cassazione, sentenza 21719 del 6 settembre 2018).

È arrivato, infine, all’ultimo grado di giudizio il caso di una rappresentazione scenica – nell’area antistante il fabbricato aziendale e all’ingresso della sede regionale della Rai – del finto suicidio dell’amministratore delegato della società e del successivo funerale, con affissione di un manifesto ove si attribuivano all’amministratore stesso le morti per suicidio di alcuni lavoratori. In questo caso, la Cassazione ha denunciato l’eccessiva dilatazione del diritto di critica e ha sancito il superamento dei limiti della continenza formale per aver attribuito all’Ad qualità riprovevoli, esponendolo al pubblico ludibrio e superando il limite della tutela della persona umana sancito dall’articolo 2 della Costituzione (Cassazione, sentenza n. 14527 del 2018).

v. anche sintesi delle pronunce

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