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La Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 10853 del 2019, fa il punto sulla “immutabilità della contestazione disciplinare sulla quale si basa il licenziamento” (dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore).

Vediamo insieme i fatti di causa.

Con sentenza del 6.3.2017, la Corte di appello di Milano rigettava il reclamo avverso la decisione del Tribunale della stessa città, che aveva confermato, in sede di opposizione, il rigetto – cui era pervenuto il giudice della fase sommaria – della domanda proposta da …, nei confronti della s.p.a. …, per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento da quest’ultima intimato per giusta causa al predetto, il 5.6.2014.

La Corte riteneva infondate le censure relative alla violazione dell’art. 215 CCNL di settore, norma prevedente la sospensione dal servizio e dallo stipendio del dipendente privato della libertà personale in conseguenza di procedimento penale sino al giudicato definitivo, il diritto alla riammissione in servizio nell’ipotesi di sentenza definitiva di assoluzione con formula piena (4° comma) e la risoluzione di pieno diritto del rapporto di lavoro e con gli effetti del licenziamento in tronco, qualora la condanna risultasse motivata dal reato commesso nei riguardi del datore in servizio (5° comma, seconda parte).

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Richiamava la comunicazione del 1.4.2014 dell’… s.p.a. con la quale si rendeva edotto il … della sospensione del rapporto a far data dal 20.3.2014, con esonero dal pagamento della retribuzione, con riserva anche sul piano disciplinare di qualunque valutazione in ordine alle condotte eventualmente addebitabili all’esito del procedimento penale, sospensione conseguente all’adozione di una ordinanza dell’Autorità Giudiziaria di applicazione della misura coercitiva del divieto di esercitare attività inerenti agli uffici direttivi delle persone giuridiche o alla professione di ingegnere.

Riteneva che, stante la natura cautelare della sospensione, disposta nella pendenza di procedimento penale, la norma contrattuale disciplinasse la sorte di quella sospensione in relazione alle vicende del procedimento penale, ma che non precludesse al datore di lavoro di avviare un procedimento disciplinare in pendenza del primo. Richiamava sentenze della Corte Suprema a conforto di tale motivazione (Cass. 13955/14, 29825/08). Escludeva che, con l’adozione di tale misura, l’… s.p.a. avesse esaurito il proprio potere disciplinare.

Quanto al merito, la Corte rilevava che la contestazione si era basata sugli elementi desumibili dall’ordinanza del G.I.P. del 1.3.2014, che aveva evidenziato come, nella gare di appalto inerenti ai lavori presso l’Ospedale …, i componenti della commissione, di cui il … faceva parte, si erano avvalsi di soggetti esterni, senza procedere direttamente alla valutazione delle offerte, demandata a “commissari ombra”, ed attestando falsamente la regolarità delle operazioni di gara, al fine di favorire il raggruppamento di imprese risultato vincitore.

La Corte disattendeva le osservazioni del reclamante in ordine alla ritenuta legittimità del licenziamento con riguardo a condotta diversa da quelle di cui alla contestazione (ossia l’essersi avvalsa la Commissione di gara dell’attività di consulenti esterni, privi di formale nomina), osservando che l’accertamento di determinati fatti, idonei ad integrare giusta causa di licenziamento, era indipendente dalla valutazione penalistica degli stessi e riguardava la sussistenza di circostanze capaci di ledere l’elemento fiduciario del rapporto di lavoro e che, nella contestazione del 14.5.2014, fosse logicamente ricompresa quella dell’intervento di terze persone senza che tale intervento risultasse  dai verbali di gara, sicché l’accertamento degli elementi costitutivi dei reati di cui agli artt. 353 e 479 c.p., era sufficiente per la Corte, anche in forza della ragione più liquida della decisione, per concludere circa la legittimità dell’intimato licenziamento.

Osservava che l’attività esterna volta da professionisti esterni alla Commissione fosse emersa quale circostanza pacifica pure dalle intercettazioni ambientali e telefoniche riportate nella ordinanza del G.I.P. e riteneva al riguardo che potessero essere utilizzati, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., anche elementi di prova emersi in altro giudizio tra le stesse parti, o tra parti diverse, e che l’attività esterna in questione era ignota all’… s.p.a.

La Corte riteneva i fatti – commessi in spregio ad elementari principi di trasparenza dell’attività della commissione nominata e delle operazioni di gara – di gravità tale da ledere in modo irreversibile l’elemento fiduciario del rapporto di lavoro e, rispetto a tali considerazioni, evidenziava l’assorbimento di ogni altra questione.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il sig. …,  affidando l’impugnazione a dodici motivi, che veniva parzialmente accolto dalla Corte Suprema.

In particolare il ricorrente censurava la sentenza sul punto in cui il giudice aveva violato – a suo avviso – il principio della immutabilità della contestazione disciplinare, andando oltre le domande / eccezioni delle parti.  Sosteneva infatti che la Corte territoriale avrebbe dovuto attenersi alla contestazione disciplinare originaria e che la violazione di ciò aveva comportato l’arbitraria sostituzione del giudice al datore di lavoro nella individuazione delle condotte integranti la giusta causa di licenziamento e avrebbe, in modo non consentito, imposto al lavoratore l’onere di difendersi non solo da quanto oggetto di specifica contestazione, ma anche da tutte le condotte anche di scarsa rilevanza disciplinare ritenute implicitamente connesse con quella esplicitamente contestata.

La Corte Suprema ha accolto tale censura ed ha sul punto ribadito il principio per il quale, ai fini delle garanzie previste dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, il contraddittorio sul contenuto dell’addebito mosso al lavoratore può ritenersi violato (con conseguente illegittimità della sanzione, irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione disciplinare) solo quando vi sia stata una sostanziale immutazione del fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell’episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente, ossia quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa. E ancora negli stessi termini, in sede di legittimità è stato affermato che “il principio della immutabilità della contestazione disciplinare, corollario del principio di specificità sancito dall’art. 7 L. 20 maggio 1970, n. 300, vieta al datore di lavoro di licenziare un dipendente per motivi diversi da quelli contestati. Non è tuttavia preclusa al datore di lavoro la possibilità di considerare, nella valutazione della gravità della condotta, fatti analoghi commessi dal lavoratore, come confermativi della gravità di quelli posti a fondamento del licenziamento, anche se risalenti a più di due anni e perfino ove non contestati”. E pertanto in ossequio all’orientamento maggioritario della giurisprudenza si è, dunque, consolidato l’orientamento secondo il quale, nel licenziamento disciplinare, il principio dell’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di licenziare per motivi diversi da quelli contestati, ma non vieta, ai fini della garanzia del diritto di difesa del lavoratore incolpato, di considerare fatti non contestati e risalenti anche di oltre 2 anni quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base della sanzione espulsiva. Ciò al fine della gravità della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del prestatore di lavoro e della proporzionalità o meno del correlato provvedimento sanzionatorio comminato dal datore di lavoro.

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