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La Corte Suprema di Cassazione, con Ordinanza n. 4808 del 2019, ha stabilito che il lavoratore coinvolto nello spaccio di sostanze stupefacenti rappresenta un fatto “di tale gravità da legittimare il licenziamento in tronco, indipendentemente dal fatto che il dipendente abbia o meno introdotto gli stupefacenti all’interno dell’azienda datrice di lavoro” (dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore del 14.3.2019).
Ecco i fatti di causa.

Con sentenza n. 456 del 2016, la Corte d’appello di Venezia rigettava il gravame proposto da … avverso la sentenza del Tribunale di Vicenza (n. 311/2014) che, pronunciando in merito all’impugnativa di licenziamento per giusta causa intimato a … il 12-14.10-2010, lo dichiarava illegittimo, con ogni conseguenza reintegratoria e risarcitoria ex art. 18 della L.n. 300/1970, ratione temporis applicabile.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la società datrice di lavoro, cui resisteva con controricorso il lavoratore.

Con il primo motivo la società deduceva la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., poiché la Corte di appello aveva omesso qualsiasi valutazione dei fatti – reato posti a base del provvedimento espulsivo e di non aver considerato che la contestazione (ed il successivo provvedimento espulsivo), ai fini della astratta sussunzione della condotta contestata al concetto di giusta causa, deve indicare esclusivamente i fatti materiali che si imputano al lavoratore e che possono essere, come nella specie, quelli stessi posti a base del procedimento penale. La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato tale motivo per le seguenti ragioni.

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Si legge nella sentenza impugnata che … con lettera del 24.9.2010, contestava al lavoratore quanto segue: “Il GIP del Tribunale … ha emesso decreto … (di) giudizio immediato. Nel decreto che dispone il giudizio immediato nei Suoi confronti, Ella risulta imputato in ordine ai fatti-reato descritti in narrativa: A) illecita detenzione ad evidente fine di spaccio di un’elevata quantità di sostanze stupefacenti;. B) reato continuato di acquisto, con cadenza regolare, e detenzione con evidente fine di spaccio delle medesime sostanze. È stata evidenziata l’acquisizione dei seguenti mezzi di prova: verbale di arresto in flagranza, analisi stupefacente, verbale di perquisizione … Nel richiamare la Sua attenzione sulla particolare gravità dei fatti a lei contestati, Le comunichiamo che Lei ha a disposizione … per produrre giustificazioni scritte … stante la gravità dei fatti sopra riportati … è dispensato dal rendere la sua prestazione”.

Sempre ad avviso della Corte Suprema la contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa; la contestazione, quindi, deve contenere le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati.

Per orientamento consolidato, la Cassazione ha ritenuto ammissibile, in quanto non lesiva del diritto di difesa, la contestazione formulata per relationem, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale, del quale il lavoratore sia già stato portato a conoscenza, posto che il rinvio è idoneo a garantire il rispetto del contraddittorio e del principio di correttezza. Nella fattispecie, la società non ha semplicemente contestato il fatto storico della pendenza del procedimento penale ma, piuttosto, i fatti materiali che di quel procedimento ne costituivano l’oggetto, rappresentati dalla detenzione e spaccio di elevata quantità di sostanza stupefacente.  Pertanto l’addebito di “detenzione e spaccio, con cadenza regolare, dal 2006, di elevata quantità di sostanze stupefacenti” costituisce, almeno in via astratta, giusta causa di licenziamento: trattasi di condotta che, oltre ad avere rilievo penale, è contraria alle norme dell’etica e del vivere civile comuni e che, dunque, ha un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto di lavoro.

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