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La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 4943 del 2019, ha confermato la legittimità del licenziamento per chi svolge attività ludiche durante i permessi sindacali (dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore del 21.2.2019).

Questi i fatti di causa.

Il sig. … dipendente della srl …, proponeva reclamo avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Treviso il 29.11.16, con cui venne respinta la sua domanda diretta all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli dalla società l’8.4.14 per avere, nel corso di quattro giornate di assenza per permessi sindacali, svolto attività ricreative ed avulse dalle finalità sindacali dei permessi accordati, ed in particolare la partecipazione alle riunioni degli organismi sindacali per i quali i permessi erano stati richiesti.

Nella resistenza della società, la Corte d’appello di Venezia, con sentenza non definitiva depositata il 5.7.17, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava l’illegittimità del licenziamento e, in base al comma 4 dell’art. 18 L.n. 300/1970 novellato, condannava la società alla reintegra dello … nel suo posto di lavoro, rinviando con separata ordinanza la causa ai fini della quantificazione del risarcimento del danno. Successivamente, con sentenza definitiva, la medesima Corte d’appello quantificava in dodici mensilità l’indennità dovuta al lavoratore ex art. 18 L.n. 300/1970, detratto l’aliunde perceptum pari ad Euro 8615, oltre accessori dalla data del licenziamento, condannando la società al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali maturati.

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Avverso tale sentenza la società datrice di lavoro ha proposto ricorso per cassazione che veniva accolto dalla Corte Suprema.

Ad avviso della Corte Suprema, infatti, i permessi sindacali retribuiti previsti dall’art. 30 St. Lav. per i dirigenti provinciali e nazionali delle organizzazioni sindacali possono essere utilizzati soltanto per la partecipazione a riunioni degli organi direttivi, come risulta dal raffronto con la disciplina dei permessi per i dirigenti interni, collegati genericamente all’esigenza di espletamento del loro mandato, e come è confermato dalla possibilità per i dirigenti esterni di fruire dell’aspettativa sindacale; ne consegue che l’utilizzo per finalità diverse dei permessi (nella specie, preparazione delle riunioni e attuazione delle decisioni) giustifica la cessazione dell’obbligo retributivo da parte del datore di lavoro, che è abilitato ad accertare l’effettiva sussistenza dei presupposti del diritto. Inoltre, l’indebita utilizzazione dei permessi non si traduce in un inadempimento ma rivela l’inesistenza di uno degli elementi costitutivi del diritto; ne consegue che, in caso di contestazione, qualora il lavoratore, su cui grava il relativo onere, non fornisca la prova dell’esistenza del diritto, trovano applicazione le regole ordinarie del rapporto di lavoro e l’assenza del dipendente e ritenuta mancanza della prestazione per causa a lui imputabile. Nel caso di specie risulta dagli accertamenti svolti dalla datrice di lavoro – contestati al lavoratore e da questi solo genericamente confutati, ovvero contrastati solo sotto il profilo della natura dei permessi (in tesi concessi ex art. 23, che riconosce ai dirigenti delle Rsa (e delle Rsu) permessi retribuiti per l’espletamento del loro mandato e come tali, non possono essere oggetto di controlli, e non 30, che accorda ai membri degli organi direttivi del sindacato dei permessi finalizzati esclusivamente a consentire la partecipazione alle riunioni degli organi medesimi, e pertanto possono essere oggetto di controllo datoriale per verificare l’effettiva partecipazione, con applicazione di sanzioni in caso di accertamento di un abuso) – che egli durante i permessi retribuiti si dedicò ad attività ricreative o personali del tutto avulse dai permessi ottenuti e comunque non partecipò alle riunioni degli organi direttivi dell’organizzazione sindacale per cui ottenne taluni dei permessi in questione. Derivando da ciò la legittima applicazione da parte della datrice di lavoro della sanzione del licenziamento.

La Corte Suprema ha quindi cassato la sentenza non definitiva impugnata e ha rinviato nuovamente la controversia all’esame della Corte d’appello di Venezia dove i giudici dovranno riesaminarla applicando i principi di diritto sopra descritti.

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