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La Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con ordinanza n. 1499 del 2019, ha stabilito che la proposta di part-time in alternativa al licenziamento dimostra l’avvenuto obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro. In pratica, come ha argomentato anche il Sole 24 Ore, la Cassazione fa chiarezza su tale questione, “confermando come debba ritenersi dimostrato l’avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro che, in alternativa al licenziamento, proponga al dipendente in esubero di modificare il proprio orario di lavoro”. Con ciò affermando che – seppure il Jobs Act stabilisca che non si possa legittimamente licenziare un dipendente che rifiuti di trasformare il suo orario di lavoro da part-time a full-time o viceversa – deve comunque sussistere un bilanciamento tra la tutela offerta al dipendente e il diritto del datore di lavoro ad organizzare la propria attività aziendale secondo scelte imprenditoriali libere e costituzionalmente garantite.

La vicenda all’esame della Corte Suprema riguardava una lavoratrice licenziata a causa della dismissione delle attività del settore banco e biglietteria aerea presso le quali questa era addetta, poiché aveva rifiutato la riduzione del proprio orario di lavoro in alternativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Ad avviso della dipendente, infatti, la proposta di riduzione di orario di lavoro non poteva costituire un valido tentativo di repêchage, ma solamente un pretesto da parte del datore di lavoro per indurla alle dimissioni. Tanto è vero che la società datrice di lavoro aveva assunto – a distanza di un anno dal licenziamento – una nuova lavoratrice a tempo pieno a cui aveva affidato anche le mansioni espletate dalla ricorrente.

La Corte Suprema, con l’ordinanza di cui sopra, ha dunque sostanzialmente confermato la decisione della Corte di Appello di Ancona, che  – in riforma della sentenza di primo grado – aveva respinto la domanda della lavoratrice intesa all’annullamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La Corte di Appello aveva infatti stabilito che il rigetto dell’impugnativa di licenziamento era fondata sulla prova della effettiva dismissione delle attività del settore alle quali era addetta la dipendente, “ulteriormente evidenziandosi che la proposta di trasformazione del rapporto da full time in part time, formulata poco prima della intimazione del licenziamento”, rifiutata dalla lavoratrice, costituiva prova del tentativo di repêchage posto in essere dalla datrice di lavoro. Mentre l’assunzione di altra dipendente dopo un anno dal licenziamento della ricorrente non era avvenuta in sostituzione di quest’ultima ma di altra dipendente cessata dal servizio successivamente.

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In conclusione, quindi, con tale decisione della Suprema Corte, viene ad affermarsi l’orientamento giurisprudenziale secondo cui le norme idonee a prevenire “la ritorsione o la discriminazione” nei confronti del lavoratore che rifiuti la modifica del proprio orario di lavoro “non possono trovare applicazione laddove tale proposta sia volta ad evitare il licenziamento per motivo oggettivo: in tale caso, pertanto, il recesso datoriale può considerarsi legittimo”.

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