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La Corte Costituzionale, con comunicato del 9 ottobre 2018, ha valutato  – per la prima volta – la legittimità della disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso per quanto attiene al “cognome comune” scelto dalle parti dell’unione civile (Legge Cirinnà).

La Corte Costituzionale, come si legge nel comunicato, ha ritenuto che la funzione del “cognome comune”, come cognome d’uso senza valenza anagrafica, non determini alcuna violazione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale. Pertanto deve ritenersi legittima la disposizione dell’art. 3 del D.Lgs. n. 5/2017 (decreto attuativo della Legge Cirinnà), là dove prevede che la scelta del “cognome comune” non modifica la scheda anagrafica individuale, nella quale rimane il cognome precedente alla costituzione dell’unione. Resta fermo che la scelta effettuata viene invece iscritta negli atti dello stato civile, ai sensi dell’articolo 63, primo comma, lettera g-sexies, del DPR n. 396/2000.

La Corte Costituzionale ha ritenuto, inoltre, che ciò realizzi il coerente sviluppo dei principi posti dalla legge delega n. 76 del 2016, attraverso l’adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile alle previsioni della legge sulle unioni civili, e in particolare a quella del suo comma 10.

La Corte Costituzionale ha poi concluso il comunicato affermando che da ciò consegue la legittimità delle modifiche anagrafiche intervenute prima dell’adozione del D.Lgs. n. 5 del 2017. La dichiarata transitorietà del DPCM n. 44 del 2016 e la brevità del suo orizzonte temporale portano ad escludere che le novità introdotte da tale fonte di rango secondario abbiano determinato l’emersione e il consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona.

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Tale questione è giunta all’esame della Corte Costituzionale dal Tribunale di Ravenna chiamato a decidere una vicenda introdotta dall’Avvocatura per i diritti LGBTI-Rete Lenford riguardante una coppia di uomini che nel 2016 aveva costituito una unione civile e scelto un cognome comune chè è stato dapprima annotato su documenti e atti di nascita e successivamente – dopo il decreto attuativo – è stato cancellato. Si rammenta che la legge Cirinnà, al riguardo, prevedeva all’origine la possibilità di annotazione all’anagrafe, possibilità che poi il decreto attuativo ha cancellato con effetto retroattivo. Ad avviso del Tribunale di Ravenna, dunque, tale cancellazione (e quindi la modifica della situazione anagrafica) poteva rappresentare una violazione dei diritti al nome, all’identità e dignità personale, alla vita privata e familiare tutelati dalla Carta e dalla garanzie della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

(Fonte: Corte Costituzionale)

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