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La Corte di Cassazione, con la sentenza 1760 del 2018, ha precisato che la “mancata concessione dell’aspettativa che avrebbe evitato di superare il comporto non salva il lavoratore del licenziamento” (dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore del 25.1.2018).

Questi i fatti di causa.

Con ricorso al Tribunale di Palmi del 20 gennaio 2005 …, già dipendente della società … impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli in data 29.5.2003 per superamento del periodo di comporto di cui all’art. 21 del CCNL dei lavoratori portuali.

Il giudice del lavoro, con sentenza 15.10.2012, rigettava la domanda.

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Con sentenza del 24.10.2014 – 15.5.2015, la Corte d’Appello di Reggio Calabria respingeva l’appello del lavoratore.

La Corte territoriale osservava che le ragioni di causa consistevano nella contestazione della mancata concessione al lavoratore di un periodo di aspettativa che avrebbe impedito il decorso del comporto.

Nel ricorso introduttivo del giudizio la condotta di rifiuto del datore di lavoro veniva contestata sotto il profilo della violazione del principio di buona fede, omettendo ogni specificazione circa la previsione contrattuale a norma della quale la aspettativa era stata richiesta dal lavoratore ed avrebbe potuto o dovuto essere concessa.

Correttamente, pertanto, il Tribunale aveva rilevato che il ricorrente non aveva invocato alcuna disposizione contrattuale sulla quale fondare il proprio diritto a godere della aspettativa.

Solo nel grado di appello il lavoratore aveva dedotto la violazione dell’art. 27 CCNL personale dei porti, a tenore del quale il datore di lavoro poteva concedere al dipendente in servizio da almeno tre anni un periodo di aspettativa per malattia oltre il periodo di conservazione del posto di cui all’articolo 21 nella misura massima di sei mesi (prorogabile, per documentate ulteriori necessità di convalescenza, sino ad un massimo di altri sei mesi).

In ogni caso il superamento del periodo di comporto era avvenuto oltre sette mesi dopo il rifiuto di concessione della aspettativa senza che il lavoratore reiterasse la richiesta in prossimità della scadenza del termine.

Non sussisteva un onere del datore di lavoro di sollecitare tale richiesta, neppure in base ai principi di correttezza e buona fede.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il lavoratore, mentre la società datrice di lavoro ha resistito con controricorso ed ha altresì proposto ricorso incidentale.

La Corte Suprema, con la sentenza 1760/2018 ha rigettato il ricorso.

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