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Oggi parliamo di lavoro digitale o crowd work, un fenomeno in crescita anche nel nostro Paese e che di fatto potremmo spiegarlo come la connessione ad una piattaforma digitale di migliaia di lavoratori che scambiano prestazioni professionali a fronte di un corrispettivo versato dai committenti che effettuano specifiche richieste. In tal modo cadono i vincoli geografici tra committente e prestatore e quest’ultimo è libero di svolgere la sua prestazione retribuita anche da casa.

Ma vediamo in cosa consiste il crowd work con lo speciale pubblicato oggi (24.1.2018) dal Sole 24 Ore (Firma: C. Gamba; Titolo: “Professionisti free-lance sulla piattaforma web. Il lavoro si trova all’asta” E “La coop che tutela i crowdworkers”).

C’è un piccolo esercito – ancora invisibile – di lavoratori che scambia prestazioni professionali sulle piattaforme digitali. È la spallata finale della sharing economy alle agenzie di intermediazione?
Presto per dirlo. Certo è che il settore del recruiting sta vivendo una vera e propria rivoluzione. Freelance, traduttori, informatici e creativi, ma anche artigiani ormai lavorano anche così: serve il nuovo logo aziendale, una traduzione al volo, la verifica di una pagina di bilancio? Basta aprire un sito specializzato, inviare la richiesta, fissare il compenso e attendere che qualcuno nella folla dei lavoratori (da cui crowd work) risponda.
In alcuni casi – ed è la strategia di BestCreativity che concentra su piattaforma clienti e web designer – si apre una vera e propria asta: solo il progetto migliore viene premiato e si aggiudica la ricompensa. Chi ci guadagna? Tutti: chi vince la competizione e di conseguenza la somma messa in palio; il committente che in modo rapido ottiene il lavoro richiesto; e infine il sito, che mette a disposizione la piattaforma di scambio, cui va solitamente una fee.
Su Cocontest (ora GoPillar), piattaforma per il lavoro digitale fondata da tre italiani a tema interior design, si incontrano i potenziali clienti e i designer che – una volta iscritti – accettano la sfida presentando la propria idea progettuale a risoluzione del concorso; il cliente sceglie il vincitore. I progettisti iscritti ad oggi, provenienti da 92 Paesi, sono 54mila; di questi il 25% sono italiani. Il 70% dei progettisti è composto da architetti, il resto da interior designer, geometri.
Numeri che inquadrino questa fetta di lavoro digitale nato sulle orme di Amazon Mechanical Turk ancora non ci sono; tracce se ne scovano in una recente ricerca (fine 2017) compilata dagli accademici dell’Università dello Hertfordshire, in collaborazione con la Federazione per gli studi progressivi europei (Feps), Uni Europa e Ipsos Mori, racconta che il 22% della forza lavoro attiva in Italia ha riferito di avere svolto un lavoro di massa. Le stime hanno rilevato che 5,68 milioni di persone su sette paesi europei mappati potrebbero guadagnare oltre la metà del loro reddito sulle piattaforme: oltre un milione di persone nel Regno Unito e in Germania e oltre due milioni di persone in Italia.
Si tratta di dati sovrastimati, secondo Antonio Aloisi ricercatore di Diritto del lavoro alla Bocconi, che però raccontano di quanto il fenomeno stia prendendo piede anche in Italia assumendo il profilo quasi di un nuovo comparto. «Le piattaforme che scambiano attività di concetto attirano principalmente due profili di lavoratori: il lavoratore autonomo puro che si apre così a un mercato globale con infinite possibilità ma anche una tipologia di lavoratore più debole, magari espulso dal mercato, costretto a lavorare da remoto. Il terreno è ancora inesplorato. E, ammesso che ci siano rischi, bisogna attrezzarsi per governarli».
Potenzialità enormi dunque per questo segmento del lavoro digitale, «la cui forza – continua Aloisi – si fonda sulla parcellizzazione: si affidano a una “folla” micro parti di un grande progetto, una sorta di esternalizzazione globale, per poi tirare le fila laddove ha sede la mente».
Con le piattaforme cade il vincolo geografico, aggiunge Ivana Pais, professore associato di sociologia alla Cattolica di Milano, e i contesti economicamente più deprivati, dove anche il costo della vita è basso, possono guadagnare dal lavoro remoto. «Intravedo un rischio, quello cioè dello strapotere della piattaforma – aggiunge – in grado di distruggere con algoritmi sempre più sofisticati la reputazione dei lavoratori, scaricando i rischi su persone esposte al mercato senza alcuna tutela». Tuttavia il lavoro all’asta, secondo la sociologa, funziona perché «è praticato da professionisti che non ne fanno la loro prima attività. La retribuzione infatti non è la leva motivante. Vediamo impegnate nelle aste le comunità di creativi o quelle scientifiche che vivono la gara anche come sfida intellettuale».
C’è soddisfazione tra i lavoratori di piattaforma anche secondo Marta Mainardi, fondatrice di Collaboriamo.org e SharItaly, il maggior evento italiano sulla sharing economy. «La sharing offre enormi opportunità: consente integrazione del reddito e flessibilità del lavoro, sono però necessarie alcune regole», aggiunge Mainardi. Collaboriamo.org fornisce l’unica mappa sulle piattaforme di sharing (il crowd work non viene rilevato): 125 nel 2017, dato lievemente in calo rispetto all’anno precedente. «Passata l’euforia iniziale, il mercato ora si consolida – conclude Mainardi –. Sopravvivono le piattaforme con modelli di business forte: segnalo che tra le nuove nate, una su tre possiede un’offerta dedicata alle aziende, in particolare nel turismo, welfare aziendale e trasporti».

LA CARTA D’IDENTITA’ DEL LAVORO SULLA PIATTAFORMA WEB

AMAZON PIONIERE 

La prima piattaforma di crowd work nasce nel 2005 negli Usa per mano di Amazon e viene battezzata Amazon Mechanical Turk (Amt), in onore del celebre turco meccanico giocatore di scacchi che sconfisse Maria Teresa d’Austria. Nel 2015 Amt ha dichiarato 500mila iscritti di 190 paesi diversi. Tra le altre piattaforme , Upwork con 8 milioni di iscritti da 180 nazioni; Freelancer conta 14,5 milioni di iscritti con 7,5 milioni di progetti mentre Twago 263.715 iscritti con 66.683 progetti

IL LAVORATORE TIPO 

Contrariamente a quanto si possa immaginare chi lavora su piattaforme digitali è giovane ma non giovanissimo.
Negli Stati Uniti il profilo dei crowd workers è generalmente quello di giovani con età media di 30 anni, con un titolo di studio di secondo livello, per buona parte donne, che trovano nel crowd work la propria principale fonte di reddito, il cui corrispettivo è generalmente pari a 2 dollari l’ora. In Italia il compenso viene pattuito di volta in volta tra committente e freelance

LE RICHIESTE 

Le piattaforme di lavoro sviluppate in Italia intermediano una serie di lavori, perlopiù intellettuali. Tra i compiti commissionati: contenuti web e sviluppo software; costruzione e pulizia di basi di dati; classificazione di pagine web; trascrizione di documenti scansionati e clip audio; classificazione e tagging delle immagini; revisione di documenti; controllo di siti web per contenuti specifici. Viene anche chiesto di convalidare i risultati della ricerca, progettare loghi e scrivere slogan per l’industria pubblicitaria

ONLINE LABOUR INDEX 

Secondo l’Online Labour Index, un indice sul lavoro online creato dal centro di ricerca dell’Università di Oxford, il mercato del crowdworking è diffuso soprattutto negli Stati Uniti con un 49,6% di richieste di lavoro. Anche in Europa, però, inizia a diffondersi il fenomeno con un bacino di forza lavoro del 12%. Negli Stati Uniti la quota dei nuovi lavoratori potrebbe raggiungere il 43% della forza lavoro entro il 2020. Niente consegne o servizi a domicilio ma programmazione di siti, web design e consulenze per aziende

La coop che tutela i crowdworkers

Si chiama SMart ed è l’acronimo di società mutualistica per artisti. È una cooperativa in forma di impresa sociale senza scopo di lucro nata in Belgio nel 1998 e operativa anche in Italia da un paio d’anni, con sede a Milano e Roma. SMart costituisce un nuovo modello di tutela dei lavoratori delle piattaforme digitali, i cosiddetti crowdworkers.
In Italia il lavoro su piattaforma ancora non conosce un inquadramento giuridico e, nonostante i vantaggi per i lavoratori, porta con sé alcune questioni di tutela del lavoro che ancora non sono state risolte. Malattia, maternità, pensione sono solo alcuni temi. Che attendono risposta.
«La nostra cooperativa assume i freelance che lavorano su piattaforma e chiediamo loro di versare l’8,5% nel salvadanaio comune della coop – spiega Chiara Faini, responsabile dello sviluppo di SMart Italia -.Ci facciamo carico della fatturazione contattando il committente, ma soprattutto garantiamo il pagamento il 10 del mese successivo del lavoro svolto».
SMart conta ormai 120mila lavoratori iscritti in nove Paesi europei (Belgio, Francia, Spagna, Italia, Svezia, Germania, Austria, Olanda, Ungheria). Nato nel 1998 per agevolare i lavoratori dello spettacolo ormai contempla l’iscrizione di professionisti e lavoratori autonomi che appartengono ai settori più diversi.
«Operiamo per la tutela e il riconoscimento delle nuove forme di lavoro – continua Faini –. Con noi i lavoratori non aprono partita Iva, fatturiamo come coop usando i contratti a intermittenza o collaborazioni coordinate e continuative». Il modello SMart pensato inizialmente per gli artisti ora vede nuove forme di inquadramento, «proprio perché il lavoro è cambiato e ancora non esistono forme alternative di tutela al di fuori dei vecchi modelli di lavoro subordinato», aggiunge Faini. Sostegno alla disoccupazione e assegno di maternità vengono anche garantiti ai soci di SMart, accanto a quella che Faini definisce «una operazione culturale», cercare cioè di «sensibilizzare la presa di coscienza della propria professionallità».

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