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Equo compenso per i professionisti, le novità del decreto fiscale:

Cosa comporterà per le parcelle dei professionisti l’introduzione del c.d. equo compenso di cui al D.L. 148/2017 in vigore dal 6 dicembre scorso?

A chiarirci la questione sono gli articoli pubblicati oggi (18.12.2017) dal Sole 24 Ore (Firma: V. Maglione; Titolo: “Così la parcella accoglie l’ equo compenso” e di F. Gallo, titolo: “Perché non è un replay dei vecchi minimi”) che di seguito riportiamo.

Arriva l’ equo compenso per i professionisti. Ma le novità – introdotte dal decreto fiscale, il Dl 148/2017, e in vigore dal 6 dicembre scorso – come impatteranno sulle parcelle dei professionisti?
Per tentare una stima degli effetti, gli esperti del Sole 24 Ore del Lunedì hanno elaborato gli esempi pubblicati a fianco, riferiti a tre casi concreti che possono finire sulle scrivanie dei professionisti. Sono state considerate, in particolare, pratiche predisposte per clienti “forti”. È lo stesso decreto fiscale, del resto, a precisare che le tutele per l’ equo compenso coprono le prestazioni professionali rese a favore di banche, assicurazioni, grandi imprese e pubbliche amministrazioni: vale a dire quei committenti che, sfruttando la propria posizione dominante, sono in grado di imporre ai professionisti compensi e condizioni stabilite in via unilaterale.
Così, i casi considerati riguardano una controversia per il risarcimento del danno da incidente stradale, in cui la compagnia assicurativa dell’automobilista chiamato in causa si rivolge a un avvocato per la difesa in giudizio; un avviso di accertamento per una presunta evasione ricevuto da una grande società, che intende impugnare l’atto e incarica un commercialista di seguire la controversia di fronte alla commissione tributaria; infine, l’assunzione di quattro nuovi dipendenti da parte di una società di grandi dimensioni, che affida a un consulente del lavoro tutti gli adempimenti.
Per ipotizzare quale potrebbe essere il compenso «equo» nelle tre ipotesi, i calcoli sono stati fatti sulla base dei «parametri» previsti dai decreti ministeriali varati per le diverse categorie. Si tratta dei decreti 140/2012 per i commercialisti, 46/2013 per i consulenti del lavoro e 55/2014 per gli avvocati. Per quest’ultimo, il ministero della Giustizia ha avviato una revisione per dettagliare, tra l’altro, i compensi che spetterebbero agli avvocati che seguono le procedure stragiudiziali di mediazione e negoziazione assistita: lo schema di decreto di modifica è stato inviato nei giorni scorsi al Consiglio di Stato.
I decreti ministeriali indicano i compensi da riconoscere ai professionisti per le attività svolte, che variano in base a diversi criteri, a partire da quello del valore e della complessità della pratica da seguire. Sono strumenti di riferimento (soprattutto) per i magistrati, chiamati a stabilire la parcella nei casi in cui professionista e cliente non riescano a trovare un accordo. Non si tratta, quindi, di una riedizione delle “vecchie” tariffe minime, che i clienti e i professionisti dovevano rispettare e che sono state abrogate ormai 11 anni fa dal decreto Bersani (si veda anche l’analisi pubblicata in basso).
Il calcolo della parcella è stato fatto utilizzando i «parametri» perché sono uno dei criteri a cui il decreto fiscale fa riferimento per determinare l’equo compenso per il professionista, vale a dire «proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto», al «contenuto» e alle «caratteristiche» della prestazione resa. È vero che i parametri non sono l’unico “aggancio” individuato. Il decreto infatti dettaglia anche alcune clausole «vessatorie», che determinano un significativo squilibrio contrattuale a carico del professionista: queste clausole possono essere dichiarate nulle dal giudice se impugnate entro due anni dalla loro sottoscrizione; e il meccanismo riporta ai «parametri» perché è tenendo conto di questi ultimi che il magistrato determinerà il compenso.
È chiaro che, in molti casi, le parcelle calcolate sulla base dei «parametri» sarebbero decisamente più elevate di quelle riconosciute ai professionisti dalle convenzioni proposte dai clienti “forti”. Resta da capire quanto i valori ritenuti «equi» di riferimento saranno in grado di condizionare il mercato. È vero, infatti, che i professionisti hanno la possibilità di contestare in giudizio le clausole vessatorie e i compensi troppo bassi. D’altro canto, però, chi lavora abitualmente con un cliente “forte” rischia di non avere comunque il potere contrattuale per chiedere una parcella più elevata; e arrivare alla contestazione del compenso in giudizio equivale, in molti casi, a chiudere i rapporti per il futuro.

I CASI PRATICI E LE PARCELLE

Il calcolo dei compensi per un avvocato, un commercialista e un consulente del lavoro sulla base dei parametri in vigore per le rispettive categorie

 

L’AVVOCATO

(a cura di F. Martini)

La controversia per il danno da incidente stradale

IL CASO
A un avvocato viene affidato da una compagnia assicurativa il compito di difenderla in giudizio nella controversia per il risarcimento del danno provocato da un automobilista suo assicurato a un pedone.
La controversia si chiude con la condanna al risarcimento del danno liquidato in 300mila euro, che va quindi considerato come il valore della causa
I PARAMETRI
Per calcolare il compenso per l’avvocato sulla base dei parametri occorre fare riferimento ai valori indicati dal decreto ministeriale 55/2014. La controversia (un giudizio di cognizione di fronte al tribunale) si colloca nello scaglione di valore da 260mila a 520mila euro e si articola in quattro fasi: di studio, introduttiva, istruttoria e decisionale.
In base alla legge (decreto legge 132/2014), prima di agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno provocato da un incidente stradale occorre tentare di raggiungere un accordo con il presunto danneggiante tramite la negoziazione assistita dagli avvocati.
Nella pratica, però, le compagnie assicurative non danno quasi mai seguito agli inviti ricevuti dal danneggiato a partecipare alla negoziazione assistita. Per questo, non è stato calcolato il compenso per questa fase
IL CALCOLO
Ecco come si articola il calcolo della parcella elaborato sulla base dei valori medi assegnati a ogni fase dal decreto ministeriale 55/2014:
Fase di studio: 3.375 euro
Fase introduttiva: 2.227 euro
Fase istruttoria: 9.915 euro
Fase decisionale: 5.870 euro

 

IL COMMERCIALISTA

(a cura di M. Cerdolini e L. Pegoria)

L’avviso di accertamento per evasione fiscale

IL CASO
A un’impresa di grandi dimensioni è stato notificato un avviso di accertamento con il quale viene contestata un’asserita evasione per i seguenti importi:
Ires per 147.107 euro;
Irap per 20.863 euro;
Iva per 99.188 euro;
interessi complessivi per tutte le imposte contestate per un totale di 32.349,91 euro;
sanzioni totali per 221.660,70 euro.
La società intende impugnare l’avviso di accertamento e per farlo vuole affidare l’incarico a un dottore commercialista al quale richiede di formulare un preventivo per l’assistenza, la rappresentanza e la consulenza tributaria
I PARAMETRI
Per elaborare il preventivo il commercialista si rifà al decreto ministeriale 140/2012 (tabella C, riquadro 10.2), che quantifica i compensi in una percentuale che va dall’1% al 5% sull’importo complessivo delle imposte, tasse, contributi, sanzioni e interessi dovuti in base all’atto notificato.
Per calcolare il valore della pratica si sommano quindi imposte e tasse (147.107 euro + 20.863 euro + 99.188 euro) a interessi (32.349,91 euro) e a sanzioni (221.660,70 euro), per un totale di 521.168,61 euro
IL CALCOLO
Il professionista, valutate le contestazioni e le argomentazioni producibili dalla società, ritiene che la complessità del ricorso sia “media” e possa perciò chiedere un compenso pari al 2,5% del valore della pratica. Ecco come si articola il calcolo della parcella:
Valore della pratica: 521.168,61 euro
Percentuale del compenso: 2,5%

 

IL CONSULENTE DEL LAVORO

(a cura di S. Bradaschia)

Le pratiche per assumere quattro nuovi dipendenti

IL CASO
Una grande società (con più di 100 dipendenti) decide di assumere quattro lavoratori e chiede a un consulente del lavoro quale sia il compenso per l’amministrazione del personale relativa a un dipendente per 12 mesi
I PARAMETRI
Il consulente del lavoro elabora il preventivo sulla base del valore medio previsto dai parametri indicati dal decreto ministeriale 46/2013, che individua i compensi per alcuni adempimenti in percentuale sull’importo globale lordo delle retribuzioni virtuali di computo del Tfr.
Quindi, per quantificare il compenso, il professionista ipotizza per ogni lavoratore, inquadrato nel quarto livello del contratto collettivo nazionale del commercio, una retribuzione virtuale di computo del Tfr globale lorda annua di 23.800 euro
IL CALCOLO
Nell’esempio si ipotizza una posizione del datore di lavoro già aperta.
Nel calcolo entrano queste voci per ciascun lavoratore:
Elaborazione cedolini per 12 mesi: 238 euro
Uniemens: 35,70 euro
Comunicazione assunzione: 50 euro
Contratto assunzione: 200 euro
Autoliquidazione Inail: 142,80 euro
Conteggio costi del personale: 15 euro
Modello 770: 238 euro
Certificazione unica: 120 euro
Accantonamento Tfr: 30 euro 
Totale per ogni lavoratore: 1.069,50 euro

Perché non è un replay dei vecchi minimi

I professionisti sono stati oggetto proprio in questo scorcio di legislatura di importanti interventi normativi, che hanno riacceso le ben note polemiche sull’inquadramento del lavoro autonomo nella disciplina lavoristica o in quella delle imprese:
la legge annuale per il mercato e la concorrenza del 4 agosto 2017, n. 124 ha previsto una nuova disciplina delle società di ingegneria, della professione notarile e delle società tra avvocati che sembra decisamente ispirata a quella delle imprese;
la legge n. 81 del 22 maggio dello stesso anno, recante «Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale», ha fissato delle regole che sembrano rispondere alla logica diversa del «lavoro autonomo non imprenditoriale»;
il decreto fiscale n. 148 del 16 ottobre 2017 convertito nella legge 4 dicembre 2017, n. 172, collegato alla manovra di bilancio per il 2018, ha introdotto precise disposizioni in materia di equo compenso degli avvocati e dei professionisti in quanto svolgenti attività di lavoro (art. 19-quaterdecies).
La lettura di tali testi fa emergere una sorta di strabismo dell’ordinamento in tema di lavoro autonomo: da una parte, esiste un filone di produzione legislativa – quello della legge n. 124 del 2017 – fortemente connotato in chiave di promozione della concorrenza, che, come ho detto, è chiaramente legato all’equiparazione professione–impresa; dall’altra, abbiamo delle innovazioni ordinamentali – quelle della legge n. 81 e del decreto fiscale dello stesso anno – nell’ambito delle quali il diritto positivo di rango primario si muove nel presupposto dell’afferenza delle professioni all’alveo lavoristico. Per la legge n. 81, in particolare, lo svolgimento di attività professionali è una delle forme attraverso le quali si manifesta il lavoro ai sensi dell’articolo 35 della Costituzione. È, quindi, un’espressione della personalità sociale dell’uomo, in piena coerenza con la migliore tradizione costituzionalistica italiana.
È evidente che quest’ultima legge ripara ad una disattenzione delle vecchie maggioranze parlamentari verso il comparto del lavoro professionale, che è andata di pari passo con vaste politiche di tutela del lavoro subordinato e con una altrettanto vasta azione di sostegno ed incentivazione del mondo delle imprese. Il legislatore si è ora reso finalmente conto che a nulla rileva che il potere economico che si contrappone al lavoratore sia quello datoriale o quello di un committente, cioè il potere di un soggetto che conferisce un incarico nell’ambito di un contratto d’opera professionale. Ciò che conta è che esiste una situazione di squilibrio tra le due parti del rapporto di lavoro, che giustifica un intervento statale diretto ad evitare fenomeni di sfruttamento e veri e propri abusi in danno del lavoratore, sia esso lavoratore subordinato sia esso «lavoratore autonomo non imprenditoriale». In altri termini, ci si è accorti, seppure in ritardo, che è lavoratore non solo l’operaio o il contadino, ma anche il professionista e che questi non può sempre identificarsi con l’imprenditore.
La legge n. 81, con il comma 4 del suo art. 3, si è però limitata a rivalutare la figura del professionista quale lavoratore autonomo non imprenditoriale stabilendo l’applicabilità ad essi della disciplina dell’art. 9 della legge n. 192 del 1998, che vieta l’abuso da parte di un’impresa dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi riguardi, l’impresa cliente o fornitrice.
È solo con il decreto fiscale di novembre che viene espressamente garantito in via legislativa al lavoratore autonomo l’«equo compenso» inteso come «compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e al contenuto e alla caratteristica della prestazione». Con tale decreto si va, perciò, oltre alle forme di tutela fondate esclusivamente sull’abuso di dipendenza economica e, soprattutto, si abbandonano i vecchi schemi ideologici che portavano a ritenere operante l’art. 36 Cost. con riferimento al solo paradigma del rapporto di lavoro subordinato.
Si prende definitivamente atto che esiste una norma costituzionale, quella appunto dell’art. 36, che offre una via – più diretta di quella dell’abuso di dipendenza economica – per garantire al professionista il diritto all’equo compenso.
Se, infatti, nella Costituzione il lavoro è protetto in tutte le sue forme ed applicazioni dagli artt. 35 e 36 e se, sempre nella Costituzione, il lavoratore è il termine con cui ci si riferisce a tutti coloro che lavorano e non ad una sola classe sociale, è evidente che anche il professionista ha pieno diritto a un compenso che sia correlato alla qualità e alla quantità del lavoro svolto. Attraverso il decreto fiscale l’affermazione del principio dell’equo compenso si aggiunge, quindi, alla (e, comunque, non nega la) tutela fornita dalla legge n. 81.
L’introduzione del principio dell’equo compenso ha trovato anche una sua ragion d’essere nella gravità della crisi economica e finanziaria iniziata nel 2008, che ha colpito le diverse forme di lavoro non subordinato ed ha posto spesso i professionisti italiani alla mercé di soggetti economicamente forti in grado di imporre clausole vessatorie.
Questa crisi ha prodotto, infatti, nel nostro Paese un netto impoverimento dei professionisti, misurabile attraverso i dati raccolti per finalità istituzionali dalle Casse di assistenza e previdenza cui è obbligatoriamente iscritto chi esercita. Nell’area delle professioni giuridiche, in soli sei anni (dal 2009 al 2015) la flessione dei redditi è stata del 23,82%. Per ingegneri e architetti, la flessione è stata del 20,05%.
In questo contesto ha destato, perciò, una certa sorpresa la sentenza del Consiglio di Stato n. 9614 di quest’anno, la quale, in relazione ad un appalto pubblico di opere di urbanizzazione destinato ad architetti e ingegneri che prevedeva la natura gratuita della prestazione, ha affermato che tale appalto può considerarsi in ogni caso a titolo oneroso dovendosi ritenere che l’utilità economica del potenziale contraente non è finanziaria, ma è insita tutta nel fatto stesso di poter eseguire la prestazione contrattuale.
Non è mancato chi ha criticato la previsione di un diritto dell’equo compenso richiamando la disciplina della concorrenza ed adombrando il rischio che, attraverso l’esplicita attribuzione di un tale diritto, si ripristinino surrettiziamente gli aboliti sistemi tariffari. Questa è l’opinione espressa il 22 novembre di quest’anno dal Garante nella segnalazione da lui inviata ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio.
Il richiamo che l’Autorità Antitrust rivolge al sistema tariffario non mi sembra, però, appropriato. Le tariffe limitavano la volontà delle parti sempre e comunque.
Ne conseguiva, quindi, che le norme che ponevano minimi inderogabili si sostituivano imperativamente alle clausole difformi eventualmente concordate tra le parti. Il che era inaccettabile (non solo) sul piano comunitario comportando le tariffe generali restrizioni del mercato con riguardo a qualunque rapporto contrattuale.
La nuova normativa, invece, limita l’applicazione del regime dell’equo compenso alle imprese bancarie ed assicurative e alla Pubblica amministrazione, e cioè ai soggetti che hanno una particolare rilevanza economica e una notevole forza contrattuale, escludendo le piccole e medie imprese individuate dalla raccomandazione 2003/361 della Commissione europea.
In altri termini, il professionista, se ritiene che i compensi non siano sufficientemente remunerativi, può invocare il diritto all’equo compenso solo nei confronti di quei contraenti che hanno concretamente abusato della loro posizione di forza per imporre condizioni vessatorie.
Non mi sembra che la norma, così interpretata, comporti alcuna deroga alle regole della concorrenza e al processo di liberalizzazione e, comunque, sia in grado di far rivivere il generale regime dei minimi tariffari.

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