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Tutele crescenti e licenziamenti disciplinari, il punto sulla reintegra:

Oggi si parla di tutele crescenti nel licenziamento disciplinare e dell’interpretazione che ne hanno fatto i giudici di merito a due anni di distanza dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23 del 2015.

A tal fine riportiamo di seguito l’analisi che ne ha fatto lo speciale pubblicato oggi (9.10.2017) dal Sole 24 Ore (Firma: Elsa Mora e Valentina Pomares; Titolo: “Tutele crescenti, quando scatta la reintegra”).

Ecco l’articolo.

A poco più di due anni dall’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti, l’interpretazione che i giudici hanno dato delle disposizioni del Dlgs 23/2015 nei contenziosi mette in luce orientamenti divergenti, ad esempio sull’onere della prova dell’insussistenza del fatto nei licenziamenti disciplinari. Vediamo dunque come si sono pronunciati i giudici di merito.
L’onere probatorio
Un punto cruciale riguarda l’onere probatorio nei licenziamenti disciplinari delle aziende con più di 15 dipendenti e, in particolare, il significato da attribuire all’articolo 3, comma 2 del Dlgs 23/2015: in base a questa norma, solo nelle ipotesi di licenziamento per motivi disciplinari in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato – rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento – il giudice condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria.
Un recente sentenza del Tribunale di Milano ha ordinato la reintegrazione di una dipendente, per mancata prova dei fatti a lei addebitati, offrendo questa interpretazione della norma: «Poiché il Dlgs 23/2015 non è espressamente intervenuto sull’onere della prova in caso di licenziamento, si ritiene che sia ancora in vigore anche per i licenziamenti soggetti a tale disciplina l’articolo 5 della legge 604 del 1966 a norma del quale l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro (…). Si ritiene sufficiente che il Giudice, valutati gli atti e i documenti di causa prodotti da entrambe le parti, possa ritenere che il fatto materiale sia insussistente». (Tribunale di Milano, sezione lavoro, sentenza del 29 maggio 2017). Nello stesso senso si è espresso il Tribunale di Lodi, sezione lavoro, sentenza 34 del 16 febbraio 2017 ).
In direzione opposta, invece, il Tribunale di Napoli ha affermato che il Dlgs 23/2015 offre un differente grado di tutela, nel senso che se il dipendente intende beneficiare della maggior tutela (reintegrazione) dovrà premurarsi di offrire elementi di prova che dimostrino l’insussistenza del fatto addebitato (Tribunale di Napoli, sezione lavoro, 27 giugno 2017). Questa seconda interpretazione sembra più rispondente al dettato letterale dell’articolo 3, comma 2 del Dlgs 23/2015 e alla sua ratio, che prevede la reintegrazione come sanzione eccezionale in caso di illegittimità del licenziamento.
La previsione legislativa dovrebbe quindi essere interpretata nel senso che, se il datore non riesce a dare piena prova delle motivazioni alla base del licenziamento, la sanzione applicabile è quella indennitaria. Solo nell’ipotesi in cui il lavoratore riesca a dimostrare la completa inesistenza del fatto contestato, il datore dovrebbe essere condannato a reintegrarlo nel posto di lavoro. D’altronde, solo il dipendente ricorrente potrebbe avere interesse a dimostrare l’insussistenza del fatto contestato, con la conseguenza che questo onere dovrebbe essere necessariamente a suo carico.

Il licenziamento ritorsivo

Il Dlgs 23/2015 (all’articolo 2) ha mantenuto ferma la regola della tutela reintegratoria, in tutti i casi in cui sia provato che il licenziamento è discriminatorio, o riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, eliminando l’inciso del motivo illecito determinante. Si è posto quindi il dubbio se possa continuare a trovare applicazione la tutela reale forte ai casi di licenziamento ritorsivo. Le prime pronunce dei tribunali sembrano aver dato una risposta affermativa (Tribunale Roma, sezione lavoro, sentenza 4157 del 24 giugno 2016).

Inidoneità alla mansione

In caso di licenziamento per inidoneità alla mansione, non è chiaro se debba applicarsi l’articolo 3 (che punisce la mancata dimostrazione del motivo oggettivo di licenziamento con la tutela indennitaria) o l’articolo 2 (che punisce il difetto di giustificazione del licenziamento per motivo consistente nella disabilità del lavoratore con la reintegrazione).

Una recente sentenza del Tribunale di Milano ha applicato proprio la reintegrazione al licenziamento di una dipendente per inidoneità fisica (non connessa a disabilità), poiché il datore non aveva provato l’impossibilità di ricollocarla in altre mansioni, quale alternativa al licenziamento (Tribunale di Milano, sezione lavoro, 23 giugno 2017).

Sembrerebbe preferibile, invece, che il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fosse ricondotto all’ipotesi prevista dall’articolo 3 (tutela indennitaria), nel momento in cui l’inidoneità non discenda da una disabilità in senso tecnico.

È auspicabile che questi dubbi siano chiariti dal legislatore. Nel frattempo, si attende il giudizio della Corte costituzionale sulle norme del contratto a tutele crescenti, dopo il rinvio operato dal Tribunale di Roma a luglio. Per il giudice, il contrasto con gli articoli 3, 4, 35, 117 e 76 della Costituzione si deve ravvisare non per l’eliminazione della tutela reintegratoria, ma rispetto alla disciplina concreta dell’indennità risarcitoria che, nel compensare solo per equivalente il danno ingiusto subito dal lavoratore, è destinata a prendere il posto del risarcimento in forma specifica costituito dalla reintegrazione, e dunque avrebbe dovuto essere più consistente e adeguata (Tribunale di Roma, sezione lavoro, ordinanza del 26 luglio 2017).

 

LE PRONUNCE

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE E ONERE DELLA PROVA 

È tuttora a carico del datore di lavoro l’onere di provare la giusta causa del licenziamento

Il giudice si è espresso su un licenziamento per giusta causa intimato a un corriere, per aver caricato sul furgone tre pacchi senza avere inserito il codice di presa. Secondo il magistrato, il datore di lavoro non aveva provato gli addebiti contestati: dunque, in applicazione dell’articolo 3, comma 2 del Dlgs 23/2015, ha reintegrato il dipendente nel posto di lavoro, riconoscendogli un’indennità risarcitoria corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegrazione, comunque non superiore a 12 mensilità.

Tribunale di Lodi, sez. lavoro, sentenza 34 del 16 febbraio 2017

 

LA MANCATA PRESENTAZIONE IN GIUDIZIO 

La mancata costituzione del datore di lavoro e l’inassolvimento dell’onere di allegare la prova rendono manifestamente insussistente la giusta causa: Ne consegue la reintegra del ricorrente e la condanna della società  al versamento delle retribuzioni maturate

Un lavoratore si era assentato dal lavoro per malattia oltre i 181 giorni consecutivi ed era stato licenziato per giusta causa. Il giudice ha rilevato che il protratto stato di malattia può divenire giusta causa di licenziamento solo se è provato che l’eccessiva malattia abbia prodotto un grave inadempimento, e che il datore di lavoro, rimasto contumace, non ha assolto a questo onere probatorio. Ha annullato dunque il licenziamento, reintegrando il dipendente nel posto di lavoro e riconoscendogli un’indennità risarcitoria dal licenziamento fino al giorno della reintegrazione, non superiore a 12 mensilità.

Tribunale di Milano, sez. lavoro,  sentenza del 5 ottobre 2016

 

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE E PROPORZIONALITÀ 

Il vizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare rileva solo per valutare la legittimità o meno del licenziamento, ma non ha effetto sulla disciplina sanzionatoria, che consiste, sempre, nella condanna a versare l’indennità prevista dall’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015

Un lavoratore era stato licenziato per giusta causa per aver distribuito un volantino pubblicitario di una società concorrente, durante la propria attività lavorativa. Il giudice ha rilevato che la condotta contestata fosse accaduta in risposta a una situazione di overbooking della società e che la sanzione del licenziamento non fosse proporzionata.

Ha dichiarato dunque l’illegittimità del licenziamento, l’estinzione del rapporto di lavoro e la condanna della società a versare al lavoratore un’indennità risarcitoria pari a quattro mensilità di retribuzione.

Tribunale di Milano, sez. lavoro,  sentenza del 23 marzo 2017

 

RITORSIONE E LICENZIAMENTO PER MOTIVI ECONOMICI 

Quando i motivi alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo risultano infondati e c’è al tempo stesso la presunzione della ritorsività (anche se provata per indizi) è possibile arrivare a una pronuncia di reintegra del lavoratore 

Un lavoratore dipendente era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo, in seguito alla soppressione della sua posizione lavorativa. Nell’impugnare il licenziamento, il lavoratore sosteneva che questo avesse in realtà natura disciplinare, e che le ragioni addotte non fossero veritiere. Il giudice riteneva provata la ritorsività e, in applicazione dell’articolo 2, comma 2 del Dlgs 23/2015, annullava il licenziamento, reintegrando il lavoratore e condannando la società a versare un’indennità risarcitoria, dal licenziamento fino alla reintegrazione.

Tribunale di Milano,  sez. lavoro, sentenza 1785 del 13 giugno 2017

 

NULLITÀ DEL PATTO DI PROVA E REINTEGRA 

Il giudice ritiene che al recesso per mancato superamento del periodo di prova intimato in forza di patto di prova nullo sia applicabile l’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015 

Un lavoratore è stato licenziato per mancato superamento del periodo di prova. Il giudice, rilevata la nullità del patto di prova, in applicazione dell’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento e l’estinzione del rapporto di lavoro, condannando il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria del lavoratore pari a 8.333,32 euro.

Tribunale di Milano, sez. lavoro, sentenza del l’8 aprile 2017

 

LETTERA DI CONTESTAZIONE GENERICA 

Una contestazione generica impedisce di effettuare qualsivoglia accertamento sulla effettiva sussistenza degli addebiti e sulla gravità e adeguatezza e proporzionalità della sanzione espulsiva (…). Manca dunque la prova dell’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso

Il caso riguarda un licenziamento disciplinare, per una non precisata «inadempienza al contratto nel rapporto con il titolare». Il giudice ha dichiarato l’estrema genericità della contestazione, ritenendo il licenziamento viziato sia sotto il profilo procedurale che sul piano sostanziale. Il giudice ha ritenuto dunque mancante la prova dell’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso e ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento e l’estinzione del rapporto di lavoro, condannando la società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a due mensilità.

Tribunale di Monza, sez. lavoro, sentenza 190 del 4 maggio 2017

 

DUE COMUNICAZIONI CON MOTIVI DIVERSI 

Non può trovare applicazione la norma posta dall’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015, perché essa riguarda esclusivamente le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, in caso di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore

Un lavoratore aveva presentato ricorso per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo dal datore di lavoro, per discordanza tra quanto indicato nella lettera di licenziamento, che richiamava l’ultimazione di lavori presso il cantiere, e la successiva raccomandata, nella quale la società adduceva motivi disciplinari. Per il giudice, il giustificato motivo oggettivo non costituiva la vera ragione alla base del licenziamento. Il giudice ne ha dunque rilevato l’insussistenza: in base all’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento e l’estinzione del rapporto di lavoro, riconoscendo al lavoratore un’indennità risarcitoria di quattro mensilità.

Tribunale di Milano, sez. lavoro, sentenza del 29 maggio 2017

 

LA MANCANZA DI DOLO 

Ritenuta la sussistenza del fatto materiale ma non di un elemento soggettivo quale il dolo o la colpa grave, in capo al lavoratore, possono ritenersi applicabili al caso specifico le previsioni dell’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015

Un lavoratore era stato licenziato per motivi disciplinari per degli ammanchi registrati durante il suo turno lavorativo. Il giudice ha rilevato la sussistenza del fatto contestato ma la mancata prova della piena riferibilità dell’ammanco al lavoratore, sebbene ci fossero molti indizi in questo senso. Il giudice ha dichiarato dunque l’illegittimità del licenziamento e l’estinzione del rapporto di lavoro, condannando la società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a quattro mensilità.

Tribunale di Milano, sez. lavoro, sentenza del 9 febbraio 2017

LE MOTIVAZIONI

Non basta la sussistenza del fatto contestato

In caso di licenziamento disciplinare illegittimo, il Dlgs 23/2015 relega la reintegrazione a ipotesi residuale. In particolare, la nuova disciplina prevede che questa sanzione si applichi solo se la causa posta alla base del licenziamento è insussistente. Negli altri casi, l’unica sanzione applicabile è quella indennitaria.

Licenziamenti disciplinari

Il Tribunale di Milano, in linea con questa impostazione, con una recente sentenza, ha condannato alla sola tutela indennitaria il datore di lavoro che aveva licenziato un dipendente per avere rubato 100 euro dalla cassa, poiché il fatto materiale era sussistente ma non era riconducibile oltre ogni ragionevole dubbio al ricorrente (Tribunale di Milano, sezione lavoro, 9 febbraio 2017).

Va nella stessa direzione anche la sentenza del Tribunale di Milano che, nel caso di un lavoratore licenziato per avere distribuito volantini che pubblicizzavano una società concorrente durante l’orario di lavoro, avendo il dipendente stesso ammesso questa condotta, dichiarava illegittimo il licenziamento perché non proporzionato rispetto alla fattispecie contestata e applicava la sola tutela indennitaria, essendo l’addebito evidentemente sussistente (Tribunale di Milano, sezione lavoro, 23 marzo 2017).

Tuttavia, si sono registrati anche casi di applicazione estensiva della norma che prevede la sanzione reintegratoria.

Ad esempio, recentemente, il Tribunale di Taranto ha condannato una società a reintegrare un dipendente, licenziato per giusta causa, perché il licenziamento non era stato preceduto dal procedimento disciplinare prescritto dalla legge (Tribunale di Taranto, sezione lavoro, 21 aprile 2017), sebbene, ad avviso di chi scrive, un simile vizio avrebbe dovuto essere classificato come vizio procedurale con applicazione delle sanzioni previste per questa fattispecie.

Il motivo oggettivo

Quanto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il Dlgs 23/2015 , all’articolo 3, comma 1, dispone che, ove non ne ricorrano gli estremi, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità.
In linea con questa previsione e con la ratio alla base del Dlgs 23/2015, il Tribunale di Milano ha applicato la sola tutela indennitaria, accogliendo il ricorso di un lavoratore che aveva impugnato in giudizio il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo dal datore di lavoro, per discordanza tra quanto indicato nella lettera di licenziamento, che richiamava l’ultimazione di lavori presso il cantiere, e la successiva raccomandata, nella quale la società adduceva motivi disciplinari (Tribunale di Milano, sezione lavoro, 29 maggio 2017).

L’ipotesi della reintegra

Anche in caso di licenziamenti per i quali il datore ha addotto il giustificato motivo oggettivo, lo stesso tribunale è arrivato ad estendere la reintegra.

Il Tribunale di Milano ha infatti accolto il ricorso di un dipendente, applicando l’articolo 2, comma 2, del Dlgs 23/2015 e ritenendo che dall’istruzione probatoria fossero emersi elementi idonei a fare presumere la natura ritorsiva del recesso datoriale (Tribunale di Milano, sezione lavoro, sentenza 1785 del 13 giugno 2017).

 

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