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Licenziamento illegittimo per rifiuto al part time:

La Corte Suprema di Cassazione ha dichiarato illegittimo il licenziamento irrogato al lavoratore per rifiuto alla trasformazione a part time del rapporto di lavoro, anche in un contesto di situazione finanziaria aziendale negativa (sentenza n. 21875 del 2015; Presidente: P. Stile; Relatore: P. Ghinoy).

È questo l’argomento affrontato dall’articolo pubblicato oggi (28.10.2015) dal Sole 24 Ore (Firma: Giuseppe Bulgarini d’Elci; Titolo: “Niente recesso per il no al part time”) che vi proponiamo.

Ecco l’articolo.

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È illegittimo il licenziamento irrogato al lavoratore, nel contesto di una situazione finanziaria aziendale negativa, sul presupposto del suo rifiuto alla trasformazione a tempo parziale del rapporto di lavoro. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza 21875/15 depositata ieri in cui si ricorda che l’articolo 5, comma 1, del Dlgs 61/2000, oggi sostituito dall’articolo 8, comma 1, del Dlgs 81/2015, ha previsto che il mancato consenso del lavoratore alla modifica del proprio regime orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

Ricollegandosi alla direttiva comunitaria sul lavoro a tempo parziale, la Cassazione ha precisato che il divieto di licenziamento posto in presenza di un rifiuto alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale può essere superato unicamente nel caso in cui siano presenti obiettive esigenze aziendali, le quali impediscono di utilizzare proficuamente la prestazione lavorativa a tempo pieno.

La Corte ha aggiunto che tale scenario si produce all’ulteriore condizione che l’iniziativa datoriale di eliminare la posizione del lavoratore a tempo pieno, in seguito al rifiuto del part-time, intervenga nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede che devono presiedere alla gestione del rapporto di lavoro.

Il caso su cui è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione era relativo alla dipendente di un centro medico che ricopriva il ruolo di direttore sanitario unitamente ad un altro collega ed alla quale era stato proposto (così come al collega) il dimezzamento dell’orario di lavoro e della retribuzione, a fronte di una dedotta necessità di riduzione dei costi resa necessaria dalla intervenuta scadenza di una convenzione con la Asl locale per la fornitura di esami specialistici. Mentre il collega aveva accettato la riduzione sia dell’orario di lavoro, sia della retribuzione, la lavoratrice aveva formulato una proposta alternativa, da cui la società aveva tratto la decisione di risolvere il rapporto di lavoro, ritenendo non più aziendalmente utilizzabile, nel mutato contesto finanziario, la prestazione della lavoratrice a tempo pieno.

Mentre il Tribunale di primo grado e la Corte d’appello avevano rigettato il ricorso e confermato la legittimità del licenziamento per essere venuta meno la disponibilità aziendale della posizione full time ricoperta dalla lavoratrice, la Cassazione ha espresso una decisione di segno contrario, valorizzando il dato testuale della norma per cui non costituisce giustificato motivo di licenziamento il rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto a tempo parziale.

Nella sentenza 21875/2015 si precisa, peraltro, che tale disposizione non equivale ad un divieto assoluto di licenziamento, dovendo essere letta la norma in relazione ai principi espressi dalla direttiva comunitaria in materia di part time (direttiva 97/81/Ce del 15 dicembre 1997) per cui, posta l’invalidità del licenziamento ricollegato al mero rifiuto di trasformare il regime orario, resta aperta la possibilità di procedere al licenziamento per altre ragioni ricollegate alle necessità di funzionamento aziendali.

La normativa sul part time impone di ritenere, ad avviso della Corte, che il licenziamento del lavoratore il quale non acconsente alla riduzione dell’orario di lavoro si può giustificare nel solo caso in cui il datore di lavoro abbia dimostrato che sussistono effettive esigenze economico-organizzative in base alle quali il rapporto non può essere mantenuto a tempo pieno, essendo tenuto ulteriormente il datore di lavoro a dimostrare la sussistenza del nesso causale tra le comprovate esigenze aziendali ed il recesso per giustificato motivo oggettivo.

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